Scarica tutta la Nagazzetta (l’editoriale, viso pallido, le recensioni…)
e leggi, di seguito, la “versione lunga” dell’intervista:
Libia,
continua….
Farid
Adly spiega come funziona l’industria dei barconi in Libia e prevede che gli
effetti su di essa della fine di Mare Nostrum saranno minimi.
Il 97% dei quasi 150 mila
sbarcati in Italia nell’anno di Mare Nostrum proveniva dalla Libia. Mentre è
ufficiale la fine dell’operazione umanitaria il 1° novembre, non si hanno dati
certi sull’applicazione effettiva della circolare del ministero degli interni
che impone la fotosegnalazione di tutti gli sbarcati (che, non potendo aggirare
il regolamento di Dublino, resterebbero “prigionieri” in Italia). Come sono
state percepite queste novità in Libia? L’abbiamo chiesto a Farid Adly,
giornalista nato in Libia, esperto di Medio Oriente, militante del movimento
antirazzista e del dialogo interculturale, autore di La rivoluzione libica (edito nel 2012 da il Saggiatore).
La fine dell’operazione Mare Nostrum e la fotosegnalazione di chi sbarca in
Italia incideranno sulle partenze dalla Libia?
Pochissimo. La motivazione dell’emigrazione
non è legata alle condizioni attrattive, ma alle necessità di fuga e queste ultime
sono strutturali. Il passaggio da Mare Nostrum a Frontex Plus non è stata al
centro dell’attenzione dei media della sponda sud del Mediterraneo. E il tam tam
non è certamente sufficiente a far giungere la notizia di queste nuove
procedure nei campi profughi alla periferia di Khartoum oppure nei paesi
sperduti dell’Africa. I rifugiati siriani e palestinesi sono spinti dalla guerra
e chi decide di andarsene non si cura di certo dei particolari amministrativi o
del dibattito tra i governi della UE. La stampa libica e libanese di questi
giorni confermano che la macchina del contrabbando di vite umane funziona a
pieno regime. Malgrado il pericolo della guerra in Libia, l’afflusso di
aspiranti migranti sulle coste attorno a Tripoli è incessante. Malgrado
l’accordo tra il governo libico e quello sudanese, l’oasi di Kufra brulica di
camion pieni del loro carico umano, ammassato all’inverosimile sopra valigie
che non varcheranno mai il Mediterraneo. Dalle coste libanesi invece partono
sistematicamente barconi verso Cipro o verso navi commerciali greche e
egiziane, che provvederanno al trasporto clandestino fino alle vicinanze dei
porti meridionali italiani, per sbarcare poi i malcapitati su mezzi di fortuna
“a perdere”, come barconi e gommoni. Se il flusso non si ferma di
fronte al pericolo della guerra, credo sia folle pensare di poterlo bloccare
con misure burocratiche.
Chi controlla e gestisce “l’industria del barconi”, apparentemente l’unica
attività in Libia oltre alla guerra di tutti contro tutti?
La filiera del contrabbando di esseri
umani non è centralizzata. In Libia non esistono né una struttura piramidale,
né un capo supremo che dirige tutto il processo migratorio. E’ prevalsa invece
una specie di “esternalizzazione” della gestione delle varie fasi.
Per i flussi dai campi di Khartoum (eritrei e somali), i reclutatori sono
sudanesi e egiziani, gli autisti dei camion sono chadiani e la gestione della
logistica abitativa e dei trasporti successivi, a tappe, fino a Ajdabie e poi
Sirte e Misurata, è gestita da libici appartenenti alle milizie islamiste.
Esiste di fatto una cooperazione internazionale del crimine, che si è
ritagliata dei compiti parziali e ben definiti, fornendo “servizi”
che vengono compensati di volta in volta. Un’inchiesta del mensile Mayadeen ha denunciato lo stato di
schiavitù in cui versano i migranti rimasti senza soldi. Vengono indotti a
lavorare nelle campagne dei signori della guerra, sorvegliati a vista da
miliziani armati, fino a quando un loro parente, in qualche altra parte del
mondo, paghi il dovuto. In Libia, i capi di queste bande del crimine sono gli
stessi delle milizie armate e, in assenza di uno Stato centrale, non hanno mai
pagato e non pagheranno per le migliaia di uomini e donne mandati a morire
sulle carrette del mare. L’ultimo anello di questa catena, gli scafisti, è di
norma personale marittimo dei paesi limitrofi, tunisini, egiziani o marocchini,
che all’arrivo si camuffano come migranti e poi, se arrivati a destinazione
ancora in vita, fanno ritorno per un nuovo viaggio.
La proposta dei corridoi umanitari – concedere a profughi e migranti visti
umanitari nei paesi di transito, prima che arrivino in Libia – è realistica o è una pia illusione?
Finché l’Europa si presenterà come fortezza
chiusa all’ingresso regolare l’industria dei viaggi della morte prospererà. L’unica
strada praticabile e meno onerosa, in termini di vite umane, è quella dei visti
regolari per rifugiati di guerra, in loco, direttamente nei campi profughi dei
paesi d’origine o di prima accoglienza (Turchia, Libano e Giordania, per i
siriani). Questa scelta dipende dalla volontà politica dei governi dei paesi
industrializzati. L’ha fatta in passato il Canada, per i palestinesi, e di
recente la Francia, per le popolazioni cristiane dell’Iraq. Chi decide di
partire di norma ha i risparmi per farlo e ha i parenti nei paesi di
destinazione. Intraprendere questa scelta dei visti per motivi umanitari
costerebbe di meno, dal punto di vista economico, per i bilanci dei paesi
ospitanti, e avrebbe il pregio di togliere ossigeno alla macchina criminale dei
trafficanti.
La Libia, vista da qui, è un incomprensibile caos.
La questione libica è complessa e finora
una lettura superficiale, figlia dell’eredità coloniale, l’ha presentata come
una lotta tra tribù e clan rivali. In Libia, dopo la caduta del regime dittatoriale
della famiglia Gheddafi, è in corso una lotta per il potere tra i nuovi
“piccoli Gheddafi”, alimentata da interferenze straniere, di paesi
arabi ed islamici principalmente. La Libia è un paese petrolifero e a bassa
densità demografica. Quindi, fa gola a tutti metterci le mani sopra. All’origine
dello scontro militare in Libia c’è la sconfitta elettorale degli islamisti.
Nel 2012 hanno ottenuto il 17% dei seggi, ma con il ricatto militare sono
diventati una minoranza determinante e hanno condizionato la fase transitoria,
escludendo dalla scena politica. Nelle ultime elezioni del 25 Giugno 2014,
tutti gli islamisti messi insieme, nonostante la legge elettorale confezionata
su misura, sono scesi all’11%, un risultato esiguo che non avrebbe più garantito
loro d’essere una minoranza determinante. L’attacco a Tripoli da parte delle
milizie islamiste aveva l’obiettivo d’impedire l’insediamento del nuovo
Parlamento, operazione riuscita dal punto di vista militare, ma completamente
fallita dal punto di vista politico, perché la maggioranza dei deputati si è
riunita nella città orientale di Tobruk e ha ottenuto il riconoscimento arabo e
internazionale, oltre alla fiducia della maggioranza dei libici. La recente
operazione di Bengasi, da parte dell’esercito libico, mira a equilibrare le
forze in campo e garantire una riuscita del negoziato in corso con la
mediazione di ONU, Stati Uniti e Ue. In Libia non è necessario, né utile, un
intervento militare esterno. Il paese, infatti, non presenta divisioni
strutturali insanabili di tipo confessionale o etnico. La comunità
internazionale ha l’obbligo però di prendere una posizione chiara, non deve guardare
soltanto agli interessi dei paesi industrializzati ad aver assicurato il flusso
di petrolio e gas. Bisogna avere il coraggio di sostenere il processo
democratico e di non tenere i piedi in due scarpe. In Libia esiste una società
civile e forze democratiche che si battono per uno Stato democratico e moderno.
Con 20 milioni di pezzi d’arma in circolazione, la Libia è una polveriera e in
questa situazione le potenze internazionali non possono permettersi di
scherzare col fuoco. Adesso stanno pagando i libici, ma in futuro il pericolo
potrebbe estendersi, come sistematicamente è avvenuto dall’intervento in
Afghanistan in poi.