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Storia del Naga dallo sportello legale

“Mario” ha 23 anni, ma sarà il taglio dei capelli, sarà che ha qualche brufolo qua e là, sembra ancora un ragazzino.
È arrivato in Italia dal Marocco quando aveva 13 anni, è stato il fratello maggiore a costringerlo a partire (“Io non volevo venire, stavo bene, lì”, dice); nei suoi modi, nel suo linguaggio, le tracce di un’adolescenza complicata, passata tra una comunità e l’altra, in mezzo a ragazzi “difficili”: ma nella confusione è riuscito a prendere in un solo anno la licenza media, e poi ha seguito un corso professionale, seguito da altri due di specializzazione, e ha sempre lavorato; ci metto un po’ a farmi dare del tu.

All’avvicinarsi della scadenza del permesso di soggiorno, 14 mesi fa, ha deciso di chiedere il permesso CE, che tutti chiamano ancora “carta di soggiorno”, quello che non ha scadenza.

“Io ormai sono italiano – mi dice – vedi, esco con gli italiani” e lancia un’occhiata all’amico che l’ha accompagnato, un suo coetaneo con l’accento siciliano, che ricambia lo sguardo sorridendo. “Di arabo mi è rimasto… boh…” “Il nome” suggerisco io, e scoppiamo a ridere.

Dalla Questura ancora nessuna risposta alla sua richiesta; lo convocano, e ogni volta lo rinviano di qualche mese, senza dirgli perché ci voglia tanto tempo; ad un certo punto gli dicono che deve fare il test d’italiano, lui mostra il diploma preso in Italia, ma non lo accettano (è un abuso, ma lui non lo sa); ride, mentre me lo dice: “Ho preso il diploma qui in Italia, come facevano a darmelo se non sapevo l’italiano?”; in conclusione, fa il test, e ovviamente lo passa.

All’ultimo appuntamento le cose vanno peggio del solito; lo insultano (si rifiuta di ripetermi quello che gli hanno detto) e lo provocano; nonostante abbia i contributi in regola dicono che il contratto di lavoro l’ha comprato (“Ma io che ne so di come si compra un contratto di lavoro?”), fingono di sequestrargli i documenti (che alla fine gli ridaranno); lui ce la mette tutta, e riesce a non scoppiare, perché lo sa che “Qui in Italia devi sempre abbassare la testa”; quando me lo dice, io commento “No, non devi abbassarla, devi solo aspettare il momento e il modo giusti per tirarla su, se non vuoi farti male”.

Alla fine gli danno un altro appuntamento, convocandolo insieme al datore di lavoro (anche lui straniero), manco fosse un ragazzino che deve presentarsi accompagnato dai genitori. “Figurati se quello perde mezza giornata di lavoro per me”, scuote la testa disperato.

Chiamiamo un avvocato, che si fa mandare i suoi dati, dice che lo chiamerà nei prossimi giorni, metteranno giù una letterina da mandare alla Questura; probabilmente la sua storia finirà bene, dovranno spiegare che cosa c’è che non va nella sua richiesta e alla fine si troverà una soluzione. Nel lasciare lo sportello legale ringrazia, saluta sorridendo, è felice, e il suo amico sembra persino più contento di lui.

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