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Al Ces di via Lombroso 99

Qualche giorno fa ci siamo recati al Ces di via Lombroso 99 ed è stata la mia prima uscita. Il gruppetto era formato da alcuni volontari, un medico e due giornaliste che ci hanno accompagnato per raccogliere informazioni sulle condizioni effettive degli abitanti del centro. L’occasione era straordinaria, un modo per far sentire la nostra presenza e la nostra voce a chi è ospitato nella struttura e a chi ospita e gestisce.

Personalmente mi sono avvicinata al Naga dopo aver scritto una tesi su rom sinti e caminanti e in particolare sulle politiche che Milano ha adottato per far fronte alla questione della chiusura dei campi (regolari e non) e alla conseguente accoglienza delle persone sfollate. Dopo aver fatto tante ricerche mi ritrovavo ora sul camper, assieme (devo dire) a tanta bella gente, per capire da più vicino la situazione.

Arrivati nello spiazzo che precede l’entrata del Ces, abbiamo sistemato due sedie e un tavolino per registrare le generalità dei pazienti.Abbiamo atteso non più di 5 minuti perché tante ragazze, alcuni uomini ma soprattutto bambini (alcuni davvero piccolissimi), si accalcassero attorno a noi. La fila dapprima disordinata, si era in breve organizzata per ordine d’entrata e mentre il nostro medico assisteva i pazienti, chi aspettava ha iniziato pian piano a parlare della vita nel Ces e della vita prima dell’arrivo in quella struttura. Nel centro attualmente sono ospitate le persone provenienti da vari sgomberi, arrivando ad ospitare 18 nazionalità diverse suddivise in 8 italiani, 5 egiziani, 3 marocchini e 2 albanesi. Modi di vivere molto diversi obbligati a convivere in spazi molto ristretti.
Come ci hanno testimoniato due signore italiane provenienti da via Idro, il giorno dello sgombero sono state private del proprio camper e di tutti gli averi che c’erano dentro: coperte, pentole, effetti personali. La rabbia che traspariva dai loro occhi è valsa più di ogni report o libro di sorta. Si lamentavano dell’assenza di acqua calda corrente e del fatto che i loro figli per essersi lavati con l’acqua gelida si erano ammalati di bronchite.

Tra i problemi di salute riscontrati delle 33 visite eseguite, molti si sono rivelati di ordinaria amministrazione come cistiti, mal di testa, carie più un’ernia inguinale e una congiuntivite batterica. All’interno dei Ces dovrebbe esserci copertura sanitaria e invece ci siamo trovati a curare patologie di routine trascurate da tempo. Molti ci hanno chiesto come fare ad avere la tessera sanitaria, altri ci chiedevano medicine, indirizzati direttamente dagli operatori del centro.

Una ragazza della Basilicata mi diceva che lei era stata segnalata ai servizi sociali in seguito al suo ricovero in ospedale dove le avevano riscontrato un tumore benigno al cervello. Dato che occupava abusivamente un appartamento col suo ragazzo, le era stato chiesto di entrare nel Ces, dove, pensava, l’avrebbero seguita e tutelata. Invece è andata diversamente; il ragazzo ha deciso di vivere da un’altra parte, lei invece si era dovuta tagliare i lunghi capelli che portava per via dei pidocchi e non godeva di alcun accompagnamento sanitario.

Un’altra signora italiana si trovava lì con il marito egiziano e le due figlie piccole. Erano scappati dall’Egitto a causa del clima di terrore e hanno occupato un appartamento in Italia da dove erano stati mandati via. Gli operatori non si sono interessati minimamente alla loro causa, lasciandoli soli nel dover districarsi nella burocrazia per l’iscrizione alla lista per il diritto alle case popolari, e per quanto riguarda la ricerca di lavoro.
Verso la fine della giornata iniziata alle 18.00 e conclusa alle 20.00, è arrivata una ragazzina rom con una mano con quel che poteva sembrare una fasciatura. Il nostro medico le ha detto di dover andare subito in ospedale perché potrebbe essere rotta.

L’ultima riprova dell’assenza di una rete sanitaria e di un lavoro di inclusione sociale pensato e organizzato per costruire un piccolo futuro per gli ospiti “accolti”.
l malfunzionamenti, la mancanza dei servizi fondamentali come l’acqua calda, il fango e la sporcizia contribuiscono a disumanizzare una porzione di società le cui problematiche sono riassunte sotto il nome di fragilità sociali. Ma non dovrebbe essere questa la fascia di popolazione più protetta sulla quale implementare un piano d’inclusione serio, non emergenziale?

Le linee guida dettate dal Comune e in particolare dall’Unione Europea, per quanto riguarda le comunità rom e sinti, sottolineano l’importanza dei progetti attivi, elencando una serie di alternative abitative e lavorative e interventi di medio e lungo periodo per l’integrazione delle comunità minoritarie, istituendo, ad esempio, il ricordo del Porrajmos per innescare processi di maturazione culturale, contro l’antiziganismo. A conti fatti, non sono state minimamente considerate dall’apparato istituzionale. Parlando con alcuni rappresentanti del Comune, ancora per via della tesi, era nata in me un po’ di comprensione per i grandi numeri con i quali la città di Milano si deve confrontare (3.000 rom in tutto circa). Tuttavia nel Ces si possono ritrovare ogni tipo di caso, nazionalità e fragilità. Di fronte a Lombroso e alle persone che ci hanno parlato e si sono sfogate con rabbia non c’è numero o stima che tenga.

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