Finalmente sono dal kebabbaro, finalmente si mangia. Mi colpisce subito l’intreccio tra la musica turca diffusa nel minuscolo locale e quella latino-americana ascoltata da due avventori a gran volume; ordino, mi siedo, cerco di mettere pace nei pensieri. È stata una serata difficile, allo sportello legale, un guazzabuglio di casi al limite della realtà: dalla misteriosa coreana inseguita da un’ancor più misteriosa richiesta di estradizione, all’insegnante venuta per un’ex allieva che non esiste (nata in Italia ma mai denunciata all’anagrafe, con un padre italiano che non l’ha riconosciuta). Eppure io so che di questo incredibile accumularsi di vicende, sarà la storia di A. a rimanermi più impressa.
Ventisette anni, uno sguardo timido, modi tanto educati da apparire quasi irritanti, A. è di nazionalità pakistana; ha ricevuto il diniego della protezione internazionale e si è rivolto al nostro centro Naga Har per richiedenti asilo, che ce l’ha inviato perché cercassimo un avvocato per il ricorso. Leggo il verbale della sua audizione, e quasi mi viene il mal di testa: impossibile orientarsi in quel dedalo di spostamenti da un villaggio dal nome incomprensibile ad un altro… “Ci credo che gliel’hanno negato, non si capisce niente!” mi vien da pensare. Ma poi il desiderio di capire prende il sopravvento. Apro google maps e incomincio a cercare.
Il motivo per cui è fuggito e chiede asilo in Italia sono i continui scontri a fuoco tra indiani e pakistani nella regione di confine da cui proviene, nel Punjab; suo padre è morto nel 2013, ucciso innocente in uno scontro sulla frontiera, e da allora lui ha vagato inutilmente di villaggio in villaggio in cerca di pace e di lavoro; alla fine nel 2014 decide di partire: 6 giorni solo per arrivare in Iran, e poi il lunghissimo viaggio fino all’Europa. Non una buona motivazione per la protezione internazionale, ma probabilmente un appoggio accettabile per un permesso per motivi umanitari.
Non trovo nulla. Sembra che nessuno dei luoghi da lui citati esista davvero; incomincio a capire perché non gli hanno riconosciuto nulla. Trovo solo la cittadina più grande in cui dice di aver vissuto per qualche settimana, gli chiedo: “Da che parte si trova il tuo villaggio, a nord o a sud?” e mi rendo conto che non me lo sa dire; A. è analfabeta, e solo ora studiando l’italiano sta imparando a leggere e a scrivere: nord e sud sa che cosa sono, ma non sa leggere una mappa. Vago su google maps alla ricerca di un appiglio, un punto fermo da cui partire, rimanendo sul confine orientale, dove secondo me deve trovarsi l’India. Ad un certo punto ho un pensiero: in quell’angolo di mondo, il confine tra i due paesi è una specie di buffo ghirigoro tracciato dalla linea del cessate il fuoco nel 2003; “Quando guardi verso l’India la mattina dal tuo villaggio, da che parte sta il sole? Davanti o dietro?” gli chiedo. Ci pensa, si concentra, gli suggerisco di chiudere gli occhi e ripeto con calma la domanda. Li chiude, ricorda, e poi: “Dietro” esclama sorridendo, e si tocca la nuca con una mano. Bene, stavo cercando dalla parte sbagliata. Riprendo le ricerche, gli leggo ad uno ad uno, cercando di azzeccare la pronuncia, i nomi di remoti villaggi: il suo ovviamente non c’è, non è che un minuscolo paesello di 200 abitanti al confine con l’India, un luogo che per il mondo non esiste. Nulla.
Ad un certo punto guarda sulla mappa e riconosce un nome: Dera, che lui chiama Diawra, un nome riportato anche sul verbale dell’audizione davanti alla commissione per la protezione internazionale; decido di approfondire, e finalmente incomincio a capire… Tutti i nomi che lui sa citare sono in punjabi, ma su tutte le carte sono scritte in urdu, la lingua ufficiale del Pakistan: a volte sono solo un po’ diversi nella pronuncia, ma molti sono completamente diversi; se cerco il nome del suo villaggio, google mi porta in una via di periferia di una città del Pakistan meridionale, lontanissimo dalle zone di guerra… “Per forza non gli hanno creduto”, ripeto tra me e me.
Riparte la ricerca, parliamo di fiumi che con ogni probabilità non vedrò mai, di montagne che ho solo sentito nominare sui libri di storia e di geografia, e alla fine s’illumina, riconosce un punto sulla mappa tra il fiume che si allarga in un’ampia ansa (il cui nome, nella sua lingua, non c’entra proprio niente con quello scritto nella topografia ufficiale) e l’India: quella è la zona da cui proviene.
Chiamo la volontaria del Naga Har che l’ha seguito, le spiego la situazione, ci accordiamo sul modo di procedere; impossibile contattare un avvocato adesso, ci penseremo domani, ma ora che abbiamo trovato la chiave abbiamo un punto di partenza: lei cercherà in università una traduzione affidabile dei toponimi tra il punjabi e l’urdu, noi troveremo un avvocato che accetti di seguirlo.
Nel congedarlo lo accompagno fuori: prima di scrivere la mail ho voglia di fumare una sigaretta. A. decide di farmi compagnia, e parliamo della sua voglia di fermarsi in Italia (“due miei amici sono in Germania, sono bravi lì, gli hanno dato una casa, ma le persone sono lontane, mentre qui mi sorridono e mi aiutano”), dei suoi progetti (ha fatto il panettiere e vorrebbe riprendere lo stesso mestiere), mi racconta del suo viaggio attraverso l’Iran, la Turchia, la Grecia: dopo aver visto per quasi tutta la sua vita solo un fiume, ha fatto indigestione di mare, ma ora gli è tornata la voglia di rivederlo… il suo insegnante d’italiano gli ha promesso che ce lo porterà.
E’ ora di salutarsi, si avvicina, gli dò la mano e lui, esitante, mi lascia con due baci sulle guance, segno – credo pressoché universale – che ormai siamo amici. Lo guardo allontanarsi per un po’ dopo avergli spiegato come tornare alla metropolitana, e poi rientro: c’è tanto lavoro ancora da fare, tra mail da mandare, il memo da compilare, un altro ragazzo ancora dentro con la sua storia e le sue speranze. E poi sono quasi le dieci e mezza di sera, e io devo ancora cenare.