Sveglia alle 5.30.
Caffé. Appuntamento in ospedale per un accompagnamento alle 7.00 del mattino.
Ci metto mezz’ora per arrivare.
Mi lavo, vestiti pronti.
F. ha perso il primo treno.
Arriverà più tardi in Porta Genova. G. amica e compagna di accompagnamenti andrà a prenderla più tardi.
Scendo, gonfio le ruote della bici, parto. Con il caldo addosso.
Dopo 300 metri una ruota è completamente sgonfia. Mollo la bici, scendo in metro. “Noi siamo già sulla Gialla. Sali sulla prima carrozza quando arrivi a Duomo che forse ci becchiamo”. Scendo dalla Rossa, faccio infinite scale, recupero il respiro e salto sul primo vagone. Eccole. Ci siamo.
In ospedale troviamo subito l’ufficio.
Niente. Se vuoi interrompere una gravidanza ognuno ha da ridire qualcosa, tutt* ti chiedono, e ognuno ha un’idea diversa di cose che andrebbero fatte: ogni ospedale ha le sue procedure. Una cosa è chiara: se vuoi abortire ci sono solo orari e turni. E bisogna arrivare per prime: prendere un numerino e aspettare, come dal salumiere.
F. è confusa (e anche noi).
Parla solo inglese: io e G. le facciamo da traduttrici, ma è difficile, tante domande personali. Magari ecco lei non vorrebbe che ascoltassimo. Però non parla italiano e in ospedale le operatrici non parlano inglese. Tant’è.
Si fissa la data.
Finalmente libere di fare colazione.
“What do you want?”
“Nothing”.
Scherzi? Dai che ancora facciamo colazione…
“Milk, an orange juice?”
“Milk”.
Ordina sempre la prima cosa che le proponi. Ma prima rifiuta. E mi fa tenerezza, forse non dovremmo insistere. Dovremmo rispettare quel senso di vergogna che forse si prova a farsi offrire qualcosa se non si ha niente con cui ricambiare. Però è incinta, sono le 8.00 del mattino, siamo in giro da due ore ed è meglio che prenda qualcosa.
Davanti al bicchiere stretto e lungo pieno di latte schiumato, F. sorride e questo ci basta, toglie la fatica, ripaga gli sforzi.
La riaccompagniamo in stazione. Deve aspettare un po’, ma non è un problema. Lei aspetta. È abituata ad aspettare.
Io e G. ce ne andiamo.
Sono le 9.30 per staccare dall’aria di ospedale che ci è rimasta addosso, vorremmo vederci una mostra in Triennale. Che apre alle 10.30.
Ci tuffiamo (perché fa caldo e siamo già fradice) al Parco Sempione.
G. ha sempre un thermos di caffé, nascosto in una borsa colorata con delle foglie disegnate sopra.
Tira fuori due tazzine di ceramica rossa, avvolte nello scottex. Le bustine di zucchero a parte, perché sa che a me il caffè piace amaro, lei lo addolcisce nella sua tazzina.
Ci togliamo i sandali.
E io penso che ci sono persone meravigliose che mi stanno vicino quando sbatto contro un muro di regole insensate che affermano diritti negandoli attraverso procedure illogiche, lunghe, totalmente assurde. Che ti fanno sentire in sospeso, incapace, idiota.
Allora continuo a coltivare un incanto magnifico, in cui i diritti di tutti e tutte non sono più parole da pronunciare da spalti elettorali ma valori da condividere nel quotidiano.
E insieme alle persone che ho incontrato al Naga, ecco mi sento più al sicuro. Difesa.