Dopo la finale dei mondiali, la giornata sembrava conclusa; e invece no.
“Vieni con noi? Andiamo a vedere com’è la situazione oggi”
“Sì, arrivo! …la situazione? Cioè?”
C’è un punto lungo via Tenda che fa da ritrovo per tutti gli shebab in giro per Ventimiglia; una volta erano proprio tutti qui, perché proprio davanti a questo grande parcheggio di fronte al cimitero si trovava sul greto del Roya, oltre il cavalcavia, l’insediamento principale degli shebab; dopo lo sgombero non è stato più costruito un accampamento unico, ma tanti piccoli punti distribuiti in luoghi meno in vista; ma nonostante tutto, questo è ancora il luogo dove le persone si ritrovano, specialmente quelle arrivate da poco: non è per caso se per il grande corteo di sabato come punto di partenza si è scelto proprio questo grande spiazzo, al fondo del quale, sui pilastri che reggono il viadotto, sono attaccati centinaia di fogli con disegni e scritte, intervallati da graffiti; fanno pensare agli ex voto sulle pareti delle chiese.
All’arrivo, la scena è spiazzante: si sta giocando un’accesissima partita di calcio che occupa l’intero parcheggio, con un numero di partecipanti imprecisato; più in là, a ridosso del viadotto, sono parcheggiati due furgoni e un’automobile, e s’intravedono dei banchetti con gente che fa la fila.
È l’ora della distribuzione del pasto, gestita stasera da due diverse organizzazioni: nell’angolo due ragazze di Roya Citoyenne, l’associazione solidale nostra sorella che opera oltre la frontiera, nell’alta valle del Roja, che era presente in forze anche alla manifestazione di sabato; al centro invece c’è un’organizzazione religiosa che non riusciamo a identificare con precisione, che oltre a riso e fagioli curiosamente distribuisce anche fette di panettone; oltre al cibo, hanno un piccolo tavolo con numerose copie della Bibbia e del Corano in arabo e francese; c’è pure un prete o un frate o qualcosa di analogo, in veste grigia con una gran croce sul petto, che parla in francese: discute con alcuni shebab, si siede in mezzo a loro.
L’organizzazione religiosa dal suo impianto diffonde musica, qualcosa tipo New Age ma più ritmata; la partita con giocatori che entrano ed escono senza particolari formalità, il prete che discute sorridendo amabilmente, le persone che distribuiscono il cibo scherzando con gli shebab, la musica nella luce del tramonto: il tutto crea un quadro sospeso, surreale, eppure è tutto normale.
Alcuni di noi non appena arrivati si sono gettati nella partita, un vero e proprio incontro di pallastrada in grande stile.
Le porte sono segnate da pietre, e per distinguerle bisogna avere un ottimo occhio, o essere tra i giocatori; i bordi sono del tutto approssimativi; ad un certo punto un’azione particolarmente combattuta si sposta dietro i furgoni, interferendo con la distribuzione dei pasti, senza che nessuno si sogni di chiamare il “fuori”; per contro, nel bel mezzo di un’altra azione un giocatore chiama a gran voce “angolo!” in italiano, prende la palla e batte il corner, nonostante in quel punto, che sta quattro o cinque metri avanti alla porta avversaria, non ci sia nulla che faccia pensare a un angolo: eppure anche ora nessuno protesta, si vede che qui vige una geometria tutta speciale.
In campo c’è di tutto, impossibile distinguere esattamente tra migranti e locali; la vera star è un bimbetto che arriva a malapena al metro, potrebbe essere latinoamericano, e che gioca in modo sorprendente, con acrobazie che lascerebbero a bocca aperta molti professionisti, mostrando di aver già appreso anche le astuzie di questo strano sport: eccolo alzare le braccia dopo un’azione dubbia in area di rigore.
Locali, shebab, solidali e chissà chi altro giocano, giocano, giocano, apparentemente insensibili al caldo micidiale, al sudore, alle dimensioni spropositate di questo campo; “È incredibile”, osserva un compagno: “Se pensi a quanti chilometri a piedi hanno fatto e devono ancora fare, è incredibile che abbiano tanta volta di giocare”.
Sorrido. “Questa è vita, la vita che vogliono”, rispondo, e lui annuisce.
Non occorre essere amanti del calcio per appassionarsi a questa partita.
E mentre Roya Citoyenne e l’altra organizzazione ripongono i pentoloni e smontano i tavoli, la musica continua a risuonare, perfettamente integrata con le urla dei giocatori e le chiacchiere di chi sta sotto le arcate del cavalcavia.
Comprendiamo di colpo che cos’è questa sensazione difficile da definire che in questo momento proviamo: con queste volontarie e questi volontari per certi versi lontani da noi, con gli shebab, coi ragazzini noi condividiamo il senso di una comune umanità, quello sguardo che non ci fa vedere degli immigrati, degli invasori, degli scocciatori da assistere, ma semplicemente degli esseri umani come noi, con i quali possiamo scambiare e condividere idee, risate, giochi, rabbia, liti, volontà di riscatto.
Per attraversare la frontiera occorre innanzitutto allenare lo sguardo e vederla per quello che è: una linea immaginaria tracciata da qualche potere: basta chiudere gli occhi e riaprirli, e non c’è più.
È dallo sguardo che nascono i pensieri e quindi le azioni, e così ci si ritrova a creare associazioni, aprire ambulatori e infopoint e sportelli legali, monitorare i sentieri, litigare sulle strategie, preparare e distribuire pasti, organizzare cortei e mille altre cose ancora: tutto per tener fede a quel senso di umanità, tutto per ritrovarsi qui, sulla frontiera, a guardare verso il campo di calcio rendendosi conto che davvero quella frontiera non c’è più, e che davanti a te ci sono solo dei ragazzi felici che giocano a calcio, noncuranti delle differenze di età, di lingua, di colore della pelle, dandosi il cinque dopo un gol.
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