Giovedì 9 giugno ore 9, confine meridionale tra Ungheria e Romania, regione del Banato.
Tutte le frontiere in qualche modo si assomigliano: da una parte e dall’altra gli stessi paesaggi, ma cartelli in una lingua diversa ripetono i limiti di velocità, sempre più o meno uguali ma con leggerissime variazioni; gli stati, del resto, devono pur far sentire la propria voce.
Qui c’è la variante di una lunga coda che ci fa perdere parecchio tempo per un controllo documenti tutto sommato innocuo; ci colpisce che il poliziotto ce li chieda in italiano, non devono essere così rari i nostri connazionali che passano di qua.
Naturalmente la nostra esperienza sarebbe molto diversa se non viaggiassimo su un comodo pullman con i nostri preziosi documenti europei; stenteremmo quasi a credere che questi confini che attraversati in autostrada si notano a malapena, siano gli stessi invalicabili bastioni che costano carne e sangue a migliaia di persone sulle rotte balcaniche.
Eppure sappiamo che è così, perché abbiamo dovuto troppo spesso riconoscerne i segni indelebili sulle persone che incontriamo al Naga: il meccanismo funziona bene, stritola chi dev’essere respinto e lascia appena un leggero fastidio per chi può passare, che rimane inconsapevole del suo reale funzionamento.
Tutte le frontiere si assomigliano, dicevamo: sarà perché sono tutte costruzioni artificiali che chiedono però tributi in vite umane; e diciamocelo, fanno tutte schifo. Il viaggio continua.