È la prima volta che viene da noi, su suggerimento di connazionali. Non è in Italia da molto tempo, il suo approdo risale a tre mesi prima. Deve fare la tessera del Naga, gli spieghiamo, prima di accedere alla visita medica. Si comunica a fatica, non parla italiano né altra lingua a me nota. Arabo e basta. Inizio a compilare l’anagrafica, un ragazzo dal Marocco mi aiuta traducendo alcune frasi chiave. Apprendo così che il signore egiziano ha cinquant’anni, anche se ne dimostra molti di più, e non ha mai studiato; moglie e quattro figli, tutti rimasti nel Paese. Lui, qui, è solo. Lo sguardo è sperduto. Non sta bene, “mi fa male tutto”, traduce il ragazzo: spesso ce lo sentiamo ripetere. E tutto vuol dire proprio tutto, corpo, anima, cuore. Le articolazioni dello sconforto.
Ho scritto il suo nome con la massima concentrazione, pretendo precisione da me stessa, su questo. Del resto anch’io mi irrito quando storpiano il mio, di nome. Perché ce l’hai attaccato addosso e ti risuona dentro, dalla nascita, in un modo che solo tu sai e senti. Basta una A o una I in meno a modificare quella vibrazione familiare.
Sul nome del signore devo stare particolarmente accorta perché è composto da ben cinque parole. Un quarto d’ora solo per risalire al cognome, aiutandomi con documenti e foglietti scritti in arabo, che lui continua a estrarre dalla tasca, uno dopo l’altro. Cinque lunghe parole, gliele faccio anche pronunciare, mi piace sentire quell’intonazione melodica. I nostri nomi suonano una musica intima. Sig. xxx: vorrei scandirlo nel modo corretto.
Il signore tiene molto al suo nome infinito, lo canta e lo ricanta. Io lo ripeto più volte finché lui non mi promuove con un sorriso. Il primo e l’unico.
Lo invito ad accomodarsi in sala e compilo la tessera, in modo da metterlo in coda per la visita. Cognome, nessun problema. Nome: quattro parole. Impossibile farle stare tutte nella tessera di piccolo formato. Ci provo, fallisco. Trascrivo soltanto i primi due.
Quando arriva il suo turno e la dottoressa lo chiama, il paziente si innervosisce per la pronuncia incerta. Chiede di vedere la tessera dove la dottoressa sta leggendo il nome, mi guarda e protesta. Non è completo! Gli spiego che è impossibile riportarlo per intero, la dottoressa conferma e lo conforta. Li accompagno all’ambulatorio, cosa che raramente faccio, per chiarire alla dottoressa che il signore non parla italiano e capirsi è difficile. Troviamo una strategia comune. Intanto lui continua a scrutare la tessera e il malcontento è palese. Deve avere visto storpiato il suo nome chissà quante volte, dall’arrivo in Italia.
Esco dall’ambulatorio e riprendo il lavoro. La visita si rivela lunga. Infine lo vedo riemergere assieme alla dottoressa, che gli prescrive una serie di accertamenti in ospedale. Molto iperteso. I colleghi volontari segnano l’appuntamento presso l’ospedale e riferiscono al paziente; una lunga conversazione, dobbiamo essere sicuri che abbia capito. Sembra di sì, anche se continua a tenere la tessera in mano, sempre più scettico. Non si è arreso. Torna da me: “nome sbagliato”, dice.
Prendo in mano la tessera con la mia grafia, segnalo l’evidenza dello spazio limitato, uso occhi, dita puntate sulla riga NOME e parole semplici, per spiegare nuovamente che non si tratta di cattiva volontà, bensì di un limite insuperabile. Non deve preoccuparsi, stia tranquillo, lo accoglieremo sempre al Naga, anche con la tessera dal nome dimezzato. Non ne dubiti. Quella tessera è una questione tra noi e lui, nient’altro. Si convince, forse. Ma non è affatto felice.
Quando torno a casa penso che il nome è l’unica cosa che gli resta. Là dentro c’è la sua identità, ci sono gli antenati, il padre e i nonni; i figli, che ne condividono di certo qualche segmento. Un nome lunghissimo e sontuoso, meritevole dell’attaccamento dimostrato, di tutela e orgoglio. Maneggiare con cura.