Un prefabbricato. Le finestre ne ricoprono solo una parte, quella che affaccia sull’ingresso. E’ una tipica mattina di inverno, umida e grigia, da dove siamo si vede solo uno scorcio di via Novara, a quest’ora il traffico è già scemato, sulla strada le macchine passano sporadiche in attesa del prossimo ingorgo, quello della sera, quando finito il lavoro si torna a casa. Appesi alle pareti i disegni su fogli di carta sono l’unico tocco di colore. Fra questi uno in particolare cattura la nostra attenzione, su uno sfondo colorato orizzontalmente metà azzurro e metà verde, spicca in primo piano il disegno della ruota di un carro. E’ la bandiera Rom. I disegni, ci dicono, sono stati fatti dai bambini ospitati nel centro. Ci troviamo nell’ufficio degli operatori che gestiscono il centro di seconda accoglienza per le famiglie Rom.
La porta si apre. Carnagione scura, i capelli neri raccolti all’indietro in una coda che cade lungo le spalle. Bellissima nella sua pienezza. Nel suo sguardo e nei suoi gesti tutta la fermezza di una donna che ha saputo andare oltre nonostante le difficoltà. Madre e compagna. Corabia.
Fin dai primi anni in Italia, ha vissuto in diversi campi irregolari attraversando Milano da una parte all’altra tanto da non ricordare più il numero di sgomberi che lei e la sua famiglia hanno subìto. Nel 2010 la svolta, trova un lavoro e con questo la possibilità di affittare casa. Così per tre anni fino a quando disoccupata, non riuscendo più a pagare l’affitto, Corabia e la sua famiglia vengono accolti nel Centro di Emergenza Sociale in via Barzaghi. “I miei figli non volevano viverci, piangevano spesso chiedendo di andare via”. Nel vedere tutte quelle famiglie stipate nelle camerate senza privacy, in edifici fatiscenti, ricorda di aver pensato che probabilmente era così che i loro nonni vivevano quando furono sterminati nei campi di concentramento. “Dormivamo nelle tende, perché non potevamo permetterci una roulotte. Ne avevamo tre in tutto. Quando i bambini iniziano a crescere, sappiamo quanto sia importante che abbiano uno spazio tutto per loro. A volte ci lavavamo nelle fontane, se al campo non c’era l’acqua, ma almeno non eravamo costretti a vivere in una camerata insieme ad altre trenta persone separate alla meglio da lenzuola che appendevamo tra i letti e gli armadi”. Gli operatori che gestivano il centro non volevano che fosse lei a iscrivere i bambini a scuola, perché era compito loro, “nonostante io sapessi come fare e dove andare. Così mentre se ne occupavano, i miei figli hanno perso due mesi prima di poter iniziare a frequentare”.
Per Corabia l’istruzione è fondamentale, “Voglio combattere l’analfabetismo, perché solo così possono emanciparsi”. Nonostante una situazione indigente è riuscita a diplomarsi in Romania. “Dovevo ritirare il diploma ma per la cerimonia non avevo un vestito adatto, così una delle mie maestre me ne aveva cucito uno ricavato da varie stoffe”. Per questo motivo raccomanda ai suoi figli di non vergognarsi se non hanno capi firmati come la maggior parte dei loro compagni.
“Questo è in momento difficile per tutti per quanto riguarda il lavoro, lo è ancora di più per noi Rom. Cadere nell’illegalità in una situazione come questa è facile. Guadagneremmo più soldi e non vivremmo in questo modo. Ma io non voglio vivere così. Per le persone oneste la vita non è mai facile”.
Dal 2014 Corabia e la sua famiglia sono stati trasferiti in via Novara per avviare un percorso di seconda accoglienza, grazie al lavoro che sono riusciti a trovare autonomamente, lei come badante, il marito autista. Ora vivono in una casetta con tre stanze. Una per lei ed il marito, una per i due figli maschi e l’altra per le due femmine. I figli più grandi continuano ad andare a scuola nonostante il cambio di residenza (I continui sgomberi, l’entrata o l’uscita da un CES, Centro di Emergenza Sociale, sono il maggior motivo di abbandono scolastico da parte dei bambini. Iscritti ad una scuola si ritrovano spesso anche solo dopo pochi mesi, a vivere lontano da questa, così frequentare diventa un problema, come lo è cambiare scuola durante l’anno scolastico. Anche riuscendoci è probabile che le famiglie vengano sgomberate di nuovo, in una girandola senza fine)
“Devo dire la verità non hanno mai subito atti di razzismo, eppure i loro compagni sanno che sono Rom”. Non capita tutti i giorni di venire a conoscenza di una notizia del genere. Al contrario è molto più facile sentire storie come quella di una maestra che con la propria auto va a prendere i bambini in un tal campo per portarli a scuola, mentre le colleghe le chiedono se dopo averli fatti scendere la pulirà, perché i Rom sono sporchi.
“La situazione adesso è migliorata rispetto a prima. Siamo consapevoli che non è permanente, ci piacerebbe poter avere una sistemazione tutta nostra. Purtroppo a dicembre la persona alla quale facevo da badante ci ha lasciati, così ora mi ritrovo senza un lavoro “. I gestori del centro sono più accomodanti di quelli passati (La gestione dei centri, a tempo determinato, viene affidata alle associazioni tramite bandi), le regole invece sono sempre le stesse. Fra queste ce ne sono alcune alle quali Corabia non riesce a dare un senso. “Abbiamo un orario per le visite, e non possiamo ospitare nessuno. Ho altri due figli in Romania, uno di loro è venuto a trovarci qualche tempo fa, ma non potendolo fare entrare, ha dovuto consumare il suo pasto seduto sul marciapiede accanto all’ingresso del centro. A volte i miei figli mi chiedono se abbiamo fatto qualcosa di male, perché sembra di vivere in prigione”.
Guardando al futuro, i figli sono sempre nei suoi pensieri, “La vita che ho vissuto io non devono ripeterla”, le parole le escono strozzate, “Che non vivano mai più l’esperienza passata in via Barzaghi, non voglio neanche pensare ad un’eventualità del genere”. Nonostante la commozione, non perde mai la sua fierezza, passato il momento, si asciuga gli occhi e torna a sorridere.
Puoi dimenticarti che esista ma non lo puoi imbrigliare, puoi ingannarlo ma non puoi fermarlo, così il tempo scorre e puntuale arriva l’ora del congedo. Corabia si alza e nel salutare le parole che pronuncia sono quanto di più appagante possa esistere. D’un tratto ti rendi conto che il senso di ciò che facciamo, le energie che spendiamo, sta tutto lì, in quella semplice frase pronunciata in un abbraccio, “Il Naga è l’unica associazione che riconosco. Perché voi siete noi, e noi siamo voi”.