La testimonianza di una volontaria.
Fare la volontaria Naga in carcere è per me un’esperienza “tosta”: è coinvolgente, è formativa perché ti fa conoscere un mondo che è molto lontano dal comune senso di civiltà, con cui ti devi confrontare, è soprattutto estremamente frustrante perché raramente la tua presenza, il tuo fare va oltre l’ascolto accogliente e il dialogo con le persone ristrette che vengono a parlare con te. Questo, a maggior ragione in epoca di pandemia, può essere già molto perché offre la possibilità di parlare, di sedersi di fronte a qualcuno che viene da fuori, semplicemente di uscire di cella, ma a me non basta.
Poi, qualche volta, succede che da un colloquio, da un dialogo, da una catena di contatti, si crea una rete che circonda una persona fragile e lavora per un obiettivo comune. È quello che è successo con C.C. è un giovanissimo ragazzo algerino, nato in Italia ma riportato dalla madre in Algeria e lasciato presso alcuni parenti laggiù .Così C., invece di crescere qui con i suoi genitori, cresce nel “suo” Paese, dove frequenta le scuole fino alla fine delle superiori, allevato da parenti con cui non coltiva buoni rapporti.
Torna in Italia diciottenne, senza documenti, deciso a restare. Ha sempre mantenuto un buon rapporto con uno zio che si è stabilito da tempo in Italia ed è molto legato a lui. Intanto trova lavoro in un paese di montagna, ha un posto letto, si arrangia. Lo zio non può aiutarlo. Un giorno viene a Milano a trovare un amico…. Ma trova altro… come accade a tanti. Viene fermato … arrestato… e la sua vita precipita… in carcere.
Io lo conosco poco dopo. Siamo in piena pandemia e il carcere è più duro del normale, più restrizioni, celle chiuse per molti, meno attività…La prima volta mi trovo davanti un ragazzo timido, spaventato, che fa fatica a parlare, l’espressione del suo viso è tesa, cupa. Non si fida di nessuno, ripete incessantemente in un italiano stentato che lui non dovrebbe essere qui , che non c’entra niente con il carcere, e che vuole stare da solo perché ha paura delle persone detenute, delle cattive compagnie, non vuole coltivare conoscenze negative.
Non vuole socializzare, fa fatica a seguire qualsiasi attività, non vuole interagire con i compagni di cella perché ha paura. Ha la passione per il disegno, in cui è molto bravo: è l’unica cosa che fa con piacere, che riempie un po’ del suo tempo, ma non basta. E arrivano la depressione, le crisi di panico , lo scoramento. Un giorno arriva al colloquio… e scoppia a piangere. La sensazione è di avere di fronte un bambino cresciuto in fretta, ma non abbastanza, perso in un mondo che lo terrorizza , a cui non appartiene.
Mi trovo a pensare “che ci fai tu qui?”Una situazione assurda (peraltro non rara), per un reato di lieve entità con tutti i presupposti per passare al più presto ad una alternativa al carcere. Purtroppo i tempi della giustizia non sono mai rapidi e bisogna fare in modo che C. non si perda in questo buco nero dove sta sprofondando.
Ma qualche volta, succede che si riesce a fare squadra, ci si trova a lavorare insieme: con avvocato, educatori, medici /psicologi che lo seguono, ci rendiamo conto che ci sono i presupposti per portarlo fuori dal carcere. Ma ai domiciliari al momento non si può perché non ha un posto dove andare
.Intanto lo vedo ogni settimana, e il rapporto si è fatto più aperto, C. comincia a fidarsi di me e delle persone del reparto che lo seguono… Lavoriamo tutti insieme con lui e per lui, cambia cella, comincia, con molta fatica, ad impegnarsi a studiare, a partecipare alle attività… comincia a vedere che la sua fatica porta dei risultati. Finché arriva il grande giorno: C. può tornare “a casa” , sotto la custodia dello zio.
Lo vedo l’ultima volta pochi giorni prima che esca. Sorridente, un nuovo taglio di capelli, parliamo, mi racconta le cose nuove che ha fatto, quello che vorrebbe fare, mi parla in italiano, dimostrandomi grandi progressi, e mentre parla continua a rigirarsi tra le mani un foglio arrotolato stretto. Quando ci salutiamo, un po’ esitante mi dice “questo l’ho fatto per te” e mi porge il foglio arrotolato: è un disegno , fatto da lui, una specie di storia a fumetti, dove ci siamo noi due. Una storia che racconta tutto quello che ora vuole dirmi, dopo questi quasi sei mesi trascorsi “insieme”.
Grazie C., perché le storie come la tua rendono sopportabile la frustrazione di entrare in galera come volontaria. Buona fortuna!