Notizie

Sesto Raggio

La testimonianza di una volontaria del servizio carcere del Naga.

Si sale sempre con una certa apprensione al IV piano del Sesto Raggio di San Vittore. E si arriva con grande affanno dopo aver percorso la scala impervia che sembra annunciare nel suo estremo degrado quello che sta di là dal cancello. Il SESTO/IV è la sezione dei cosiddetti Protetti, i detenuti che il gergo della galera chiama ‘infami’, quelli che non possono permanere nei reparti della delinquenza comune il cui codice etico non concede tolleranza verso la particolare efferatezza di certi crimini, anche solo presunti, o verso soggetti vistosamente devianti nella loro identità di genere. E invece, varcata la soglia, il Sesto/IV smentisce le aspettative create dalla pesante stigmatizzazione che gli pesa addosso e si rivela un posto imprevisto e di imprevisti.
Il reparto è ampio e luminoso con una piccola biblioteca a vista sul fondo, disegni e tavole dei buoni propositi alle pareti. E ci sono loro, i Protetti.


Eccoli qua: tutte le età, le razze, le lingue radunate in una settantina di persone, ospitate in celle da tre/quattro detenuti, molti dei quali sono sottoposti, con ogni evidenza, a trattamenti sedativi pesanti. Visti da fuori, sono quelli per cui una grande maggioranza di gente vorrebbe “buttare la chiave”. Visti da ‘dentro’ e da vicino sono persone che – ti raccontino poco o tanto di sé, ti dicano o no cosa li ha portati in carcere – hanno estremo bisogno di uscire dalla solitudine e dall’apatia del ghetto e di sentire il suono della propria voce che parla a qualcuno cui interessa ascoltare e non giudicare. La prima volta che è possibile raccoglierli in un piccolo gruppo è il 6 maggio 2021. La pandemia impone ancora la reclusione dura, ma chi partecipa a questo incontro settimanale ha il permesso di lasciare la cella. Tutti gli altri restano, tranne l’ora d’aria, di là dalle sbarre; qualcuno sporge uno specchietto per guardare cosa succede nel corridoio… E’ un’immagine che colpisce allo stomaco, il segno del ritorno, con l’emergenza, a una galera che credevo superata per sempre.

Nella saletta arrivano due ragazzi senegalesi e due colombiani. I senegalesi parlano perfettamente italiano, sono belli e maestosi, integrati da tempo, abbastanza spavaldi. I due colombiani sono come un’apparizione, allegra e chiassosa e da uno di loro, stanco di tutte le complicate questioni burocratiche che lo assillano e per cui ha chiesto di incontrarmi, ecco arrivare una richiesta lì per lì strabiliante: “Saresti proprio un tesoro se mi portassi un uncinetto e delle matassine di filo colorate, rosse soprattutto, per fare i braccialetti”.


E a me pare che in questo modo, con quell’impellente bisogno di uncinetto, mi stia spiegando – meglio che se non avessimo intavolato una discussione sul tema – come nel lungo periodo in cui il Covid ha ripristinato il regime delle celle chiuse, ha cancellato gli incontri con i parenti e con qualsiasi figura esterna, gli espedienti per riempire il tempo vuoto sono tornati a essere la merce più preziosa.

E così, qualche giorno dopo, eccomi in una merceria milanese a chiedere matassine colorate e due uncinetti a una commessa, alla quale mi piacerebbe raccontare che devo portarli in carcere a una persona che non può neanche lontanamente immaginare, detenuta a San Vittore per un reato che non conosco in un reparto su cui pesa un marchio infamante.


Le spiegherei che credo valga la pena di portargliele, quelle matassine, e non come gesto caritatevole ma perché – ce lo ha insegnato una sentenza memorabile della Corte Costituzionale (nr. 196) – anche e soprattutto chi si trova ristretto in regime speciale “deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”. Per esempio lavorare all’uncinetto.

Foto di Jimmy Chan

Sostieni il Naga, adesso.

Il tuo sostegno, la nostra indipendenza.