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A PROPOSITO DI UN RECENTE CASO RIGUARDANTE SAN VITTORE

La testimonianza del Naga

Il 6 febbraio scorso le volontarie e i volontari del Gruppo carcere del NAGA che entrano a San Vittore hanno ricevuto l’invito a sottoscrivere con altre associazioni e realtà attive in ambito penitenziario una lettera al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano e al Presidente del tribunale di sorveglianza di Milano nella quale si esprime preoccupazione in merito a “un procedimento a carico di due operatrici sanitarie” psicologhe presso la casa circondariale. Inviato da un mittente più che affidabile, il testo non portava tuttavia indicazione né degli estensori né dei firmatari.

Inoltre, non forniva elementi informativi circa il procedimento in questione; chi era estraneo ai fatti e voleva farsi un’idea della vicenda per firmare con cognizione di causa, non poteva che affidarsi a quanto in quei giorni ne scrivevano o dicevano i diversi media. Sono stati in molti e da più parti ad aderire  prontamente all’appello a sostegno delle due operatrici e della loro dignità professionale, rimarcando le modalità intimidatorie con cui ha agito nei loro confronti l’azione inquirente (perquisizioni in casa e nel luogo di lavoro, intercettazioni, sequestri di cellulari e pc) con il rischio – come ha sottolineato nel suo comunicato l’Ordine degli Psicologi della Lombardia – di compromettere la serenità dei professionisti che operano presso i presidi sanitari del sistema penitenziario. Anche le volontarie e i volontari del Gruppo carcere del NAGA, pur non entrando nel merito di una vicenda giudiziaria ancora vincolata dal segreto istruttorio, condividono nelle sue motivazioni la denuncia di un modo di procedere nel quale si manifesta, con tratti particolarmente inquietanti, la deriva autoritaria e giustizialista che governa i nostri tempi.

Tuttavia, dopo averne discusso al nostro interno, abbiamo preferito non sottoscrivere la lettera perché, nella sua parte centrale, ci è sembrata proporre una focalizzazione esclusiva sulle problematiche legate alla vicenda in corso, senza allargare lo sguardo alla attuale situazione in cui versa nel suo funzionamento complessivo la casa circondariale, situazione che grava pesantemente sulle condizioni di lavoro al suo interno e sul rispetto dei diritti delle persone detenute. In realtà, per noi, il carcere è l’istituzione che più di qualsiasi altra riflette e sconta in tutti i suoi ambiti gli effetti dirompenti delle attuali contraddizioni sociali, e l’attività del servizio psichiatrico e psicologico rappresenta solo un tassello – per quanto essenziale – della mastodontica macchina penitenziaria, percorsa oggi da una crisi che sembra irrisolvibile. Proprio San Vittore ne offre un esempio illuminante: ha raggiunto un tasso di sovraffollamento del 233%, con una popolazione costituita per quasi un terzo da giovani fra i 18 e i 25 anni, per oltre il 70% da stranieri provenienti dai più diversi e spesso traumatici percorsi migratori.

Le tipologie di reato dominanti rinviano a situazioni di disagio ed emarginazione. In questo quadro, per quanto riguarda l’ambito psichiatrico, si inserisce un tasso di dipendenze da sostanze e farmaci e di disturbi mentali mai conosciuto prima, per il quale il numero di operatori sanitari disponibili, di altre figure che dovrebbero essere di supporto al loro compito e le stesse condizioni logistiche in cui si trovano ad agire risultano inadeguati. Sono molte le domande che questa situazione solleva: Ogni quanto il detenuto o la detenuta ha un colloquio, e di che durata, con lo psicologo? Ci sono luoghi riservati a questi delicati incontri nella drammatica scarsità di spazi? Esistono mediatori linguistici e interculturali che li rendano possibili con gli stranieri? Come interpretare i dati allarmanti sull’impiego massiccio di psicofarmaci a fini sedativi? Quali sono i tempi realistici di attesa per avere un posto in una Rems, la struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali? Di fronte a queste condizioni, non stupisce più la notizia di sempre nuovi casi di autolesionismo o di suicidio, rispetto ai quali l’attività di prevenzione suicidaria attualmente in essere appare con ogni evidenza insufficiente. Stupisce invece, per tornare alla lettera, che questo quadro che contraddistingue la situazione attuale a San Vittore non sia stato almeno evocato nel prendere le parti di figure la cui dignità professionale è compromessa, in prima istanza, dal degrado dell’istituzione in cui si trovano ad operare, degrado che riteniamo debba essere descritto e denunciato in ogni occasione, con ogni interlocutore.

Pur non avendo aderito all’appello, le volontarie e i volontari del NAGA che entrano a San Vittore vogliono tuttavia ribadire il loro  rispetto per il lavoro delle due operatrici toccate dal procedimento in corso, proprio perché sanno con quali carenze strutturali, con quali difficoltà e frustrazioni si devono confrontare, e le sentono indispensabili interlocutrici e alleate nella fatica di rendere il carcere, nonostante tutto, giorno dopo giorno, un luogo di crescita e di riscatto: per chi lo patisce come pena e per chi lo vive come impegno civile e politico.   

Foto di Jimmy Chan

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