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ODISSEA PER UN PERMESSO PER CURE MEDICHE

Ad agosto lo sportello legale non chiude ma il numero di aperture è in funzione del numero dei volontari presenti. Quell’anno furono garantiti 4 giorni, tutti molto affollati.

Erano già le 11 di sera quando affrontammo l’ultimo caso: eravamo stanchi e ci auguravamo si trattasse di qualcosa di veloce anche se, per esperienza, chi attende molte ore lo fa per un buon motivo. O per disperazione. 

La coppia non parlava bene italiano e neppure inglese e, all’inizio, equivocammo, pensando che la richiesta fosse posticipabile. Ad un esame più accurato, vedemmo che si trattava di un preavviso di rigetto per un permesso di soggiorno per cure mediche. Il signor Ivanovich, nome di fantasia, soffriva di una patologia oncologica. 

Alle 11 di sera, con una barriera linguistica importante, le possibilità di fare un buon lavoro erano nulle. Ci consultammo rapidamente e decidemmo un’apertura straordinaria, fissando loro un appuntamento per l’indomani. Fu la prima di molte eccezioni.

Il caso sembrava semplice: alla documentazione mancava solo una frase-chiave, mentre i termini non vincolanti per rispondere al preavviso di rigetto non erano superati e ci consentivano ancora di percorre quella strada. La frase mancante poteva essere agevolmente inserita nella relazione clinica scritta dagli oncologi che lo seguivano da molti mesi nel prestigioso e antico ospedale a nord del Po. Facemmo le fotocopie dei documenti, preparammo la mail per i due specialisti e trovammo il tempo per scherzare un poco con la coppia affiatata seduta davanti a noi: loro ci mostrarono fotografie della vita di “prima”, del loro Paese, dei figli. Era solo la tosse stizzita e non comprimibile del signore a preoccuparci un po’.

Con stupore, gli specialisti non replicarono alla nostra mail e neppure a quelle successive. Chiamammo in reparto: ci diedero un numero telefonico a cui nessuno rispose mai. Contattammo l’Ufficio delle Relazioni con il Pubblico di quel noto ospedale del Nord. Nessuna risposta. Sollecitammo. Risposero infine trincerandosi dietro la normativa sulla privacy e chiedendo documentazione aggiuntiva. La fornimmo. Scrissero dopo un’altra settimana rimandando la questione agli specialisti. Li contattammo. Non risposero a noi ma alla famiglia senza fornire la frase ad integrazione della domanda ma precisando verbalmente che nessuna terapia era possibile senza la tessera sanitaria.

Dopo quasi due mesi che la coppia si era rivolta a noi eravamo ad un punto morto, scoraggiati ma non vinti, mentre il signor Ivanovich con la sua tosse era stato portato diverse volte d’urgenza in Pronto Soccorso. Dopo qualche altro tentativo, contattammo il reparto dell’ospedale milanese dove, circa un anno prima, avevano intuito la grave patologia di cui effettivamente soffriva. Era la strada giusta: l’oncologo fece la relazione con la frase mancante. Inviammo subito il tutto alla Questura che, in tempo record, gli fissò un appuntamento.

Dopo due settimane il signor Ivanovich aveva un permesso di soggiorno di sei mesi e una tessera sanitaria. 

Il prestigioso e antico ospedale iniziò la chemioterapia dopo dieci giorni, grazie alla frase che l’oncologo del reparto dell’ospedale pubblico milanese che aveva effettuato la prima diagnosi  non rifiutò di scrivere.

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