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Salgari, due cantanti cambogiani e nemmeno un massaggio cardiaco.

La testimonianza di Fabrizio Signorelli, chirurgo e direttore sanitario Naga.

Come sei arrivato al  Naga?
Un po’ per caso.
Ero un giovane medico e frequentavo il reparto di chirurgia d’urgenza del policlinico, qui a Milano.
Un pomeriggio un chirurgo più anziano, che si chiamava Bossi, ma senza parentele sospette, disse a me e ad altri giovani colleghi che c’era bisogno di controllare lo stato di salute dei bengalesi che stavano facendo lo sciopero della fame, non so perché, non so in quale piazza della città. Non ci sono andato, quella volta, ma mi ha incuriosito ed ho cercato di capire da dove arrivasse quella richiesta.
Credo che Bossi sia stato uno dei primi medici che ha collaborato con Italo, agli albori del Naga ma non ne so molto. Così ho scoperto l’esistenza del Naga, ho salito le scale di quel terribile palazzo in viale Bligny e, più o meno subito, mi hanno detto che potevo iniziare a visitare. 
Venivo da troppi anni di volontariato in ambito cattolico. Ed anche se ormai avevo smesso di frequentare quell’ambiente, mi era rimasta la voglia di fare qualcosa per aiutare “gli ultimi”. Lo so che suona clericale e retorico, ma era così. Naturalmente si associava a questo una grave “sindrome di Salgari”, la speranza, cioè, di incontrare patologie “strane”, esotiche.
A quel tempo non sapevo che esistesse e si chiamasse così, ma ne ero innegabilmente affetto in modo grave. 

Che cosa fai al Naga?
Faccio il medico, anzi faccio il chirurgo. Da molti anni (più o meno 30) faccio un ambulatorio alla settimana, il lunedì pomeriggio, mi pare da sempre…
Da qualche anno sono anche il direttore sanitario del Naga. Di questo incarico vado particolarmente fiero e ci tengo molto a dirlo. Sarà che ho avuto poche soddisfazioni dal SSN…

Che cosa significa fare il medico al Naga?
Significa non aver smesso di voler salvare il mondo. Lo dico come battuta, ma spero si capisca quello che intendo. Significa anche pensare di fare qualcosa che senza di te non si realizzerebbe, curare delle persone che senza il Naga non saprebbero dove andare. 
Ma significa anche incontrare persone di Paesi diversi, scoprire modi di descrivere le malattie che non avevo mai sentito, motivi religiosi o culturali per cui le persone si comportano come si comportano. Si capisce che ho una passione per l’antropologia?

Quali son gli ostacoli più frequenti che incontri durante la tua attività al Naga?
Non starò nemmeno a dire di quanto sia complicato cercare di curare qualcuno con il quale non ti capisci per ragioni linguistiche e quanto odi dover utilizzare l’aiuto telefonico di parenti o amici dei pazienti. Ma la cosa che più mi irrita e la difficoltà di spiegare i paradossi della legge italiana verso le persone stranieri, come funziona il famigerato STP o la normativa sul permesso di soggiorno per motivi di salute. Nello sguardo dei pazienti vedo il punto interrogativo di fronte a norme che sembrano assurde. Vorrei fargli capire che io, come loro, non c’entro niente con questa legge ed anch’io la subisco per quello che è. Credo di non riuscirci spesso. 

Per relazionati in modo efficace con le persone che cercano assistenza dal Naga hai dovuto superare pregiudizi che tutti – inevitabilmente – abbiamo costruito dentro noi stessi?
Sicuramente ho dovuto superare il pregiudizio di pensare di non avere pregiudizi. Non voglio ritornarci troppo su, ma, a posteriori so di aver vissuto tutte le fasi della sindrome di Salgari:  la ricerca di patologie esotiche, in mancanza di queste il pensiero che le persone migranti non avessero nulla che meritasse di essere curati, la conseguente perdita di senso del lavoro al Naga, ritrovato poi poco a poco,  quando ho capito che anche senza curare la lebbra si potevo  essere utile. Dal mio attuale punto di vista sembra un po’ ridicolo, ma ci sono stati momenti difficili nel mio rapporto con il Naga. 

Ti ricordi un momento particolare che hai vissuto al Naga?

Questa è la domanda più difficile di ogni intervista.
Vorrei poter descrivere episodi di vite salvate con il massaggio cardiaco in corridoio ma non mi è mai successo… Ricordo qualche episodio divertente che ripeto spesso: i due pazienti pz in giacca e cravatta che ho visto un giorno in sala d’attesa. Erano due cantanti cambogiani che stavano lavorando alla Scala. Uno dei due doveva rimuovere i punti di un recente intervento chirurgico, non parlavano italiano e da un pronto soccorso erano stati spediti al Naga. Ricordo il loro sguardo un po’ spaurito nella nostra colorita sala d’attesa.
Ricordo con sofferenza la volta in cui ho dovuto chiamare la polizia per un pazienti che, di fronte al rifiuto di prescrivere un farmaco che usava in modo “immotivato”, aveva cominciato a tagliarsi con un coltello.
Ricordo le velate minacce del mio direttore generale quando avevo denunciato in un’intervista alla stampa il comportamento illegale di un ospedale il cui direttore generale era suo amico… E tante altre storie di persone, spesso tristi, ma nemmeno un massaggio cardiaco.

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