Intervista a Norina Vitali, NAGA – Medicina di Strada.
Come sei arrivata al Naga?
Sono arrivata al Naga nel 2009. Ho insegnato per 40 anni, sono sempre stata impegnata politicamente e nel sindacato e quando sono andata in pensione ho sentito il bisogno di fare qualcosa che mi facesse davvero comprendere cosa stesse accadendo sul territorio.
Ho scelto il Naga perché è un’associazione laica di volontariato, con obiettivi anche di rivendicazione politica e sociale. Sapevo inoltre che uno dei gruppi si occupava di persone rom e io ero interessata a conoscere, a capire qualcosa in più su queste persone: le più discriminate tra i discriminati.
Che cosa fai al Naga?
Sono entrata nel servizio di Medicina di Strada, che all’epoca (e per molto tempo ancora) faceva uscite serali nei campi rom irregolari, con un’unità mobile, offrendo assistenza sanitaria ma non solo. Da allora, sono sempre rimasta in questo servizio.
Non sono una medica, quindi faccio parte dell’accoglienza, e mi occupo delle persone fuori dal camper, dove si svolgono le visite.
Negli ultimi anni, a causa dei continui sgomberi, molte famiglie rom (in prevalenza rumene) hanno occupato case popolari, e così le nostre uscite si sono spostate nella zona della stazione Centrale, dove incontriamo migranti sia in transito sia stanziali.
Che cosa significa fare accoglienza in Medicina di Strada?
Chi fa accoglienza sta fuori dal camper: accogliamo e registriamo le persone che chiedono una visita, predisponiamo l’elenco per i/le medici/che e forniamo indicazioni su dove poter dormire, mangiare, ricevere assistenza legale (al Naga), e altro ancora.
Ma il nostro ruolo è molto più ampio: si tratta prima di tutto di instaurare una relazione, cercare di comunicare, soprattutto con i tanti giovani che si affollano attorno al nostro tavolino. Molti non chiedono neanche una visita: hanno soprattutto bisogno di essere visti, riconosciuti, ascoltati — anche se spesso non riusciamo a capirci per via della barriera linguistica (per fortuna oggi ci sono i traduttori!).
In questa città “smart”, molta gente passa accanto a loro senza nemmeno accorgersene… o meglio, fa finta di non vedere. Sono invisibili. A volte, invece, suscitano timore.
Ci tengo a dire che in tutti questi anni, durante le uscite — sempre serali, spesso fino a tarda notte — anche quando eravamo solo donne, non mi sono mai sentita in pericolo. Non ci è mai accaduto nulla di spiacevole.
Nei campi rom ci capitava spesso di passare le serate intorno al fuoco, con qualcuno che suonava la fisarmonica o il violino, e le donne ridevano con noi.
Alla stazione Centrale, questi ragazzi (non tutti, ma molti) vogliono raccontarci della loro famiglia, del loro Paese, della loro città.
Quali sono gli ostacoli più frequenti che incontri durante la tua attività?
Nella relazione, sicuramente la barriera linguistica, che però in parte riusciamo a superare con l’aiuto dei traduttori e di alcune app “innovative”.
A livello personale — e vale per tutti noi che facciamo accoglienza — uno degli ostacoli più difficili è la frustrazione, il senso di impotenza di fronte a così tanta sofferenza. A volte è difficile da reggere, ma sappiamo quanto sia importante la nostra presenza. L’esserci conta.
Per relazionarti in modo efficace con le persone che cercano assistenza, hai dovuto superare pregiudizi che, inevitabilmente, tutti abbiamo interiorizzato?
Certo! Tutti abbiamo pregiudizi, più o meno consapevoli. L’attività al Naga mi ha aiutata prima di tutto a diventare consapevole dei miei. Spesso mi ci sono scontrata, li ho riconosciuti e ho provato a superarli.
Da ex insegnante, ho imparato — o meglio, sto ancora imparando — a non giudicare… o almeno, a farlo meno.
La differenza non va giudicata, ma accettata. E accolta, come differenza.
Devo dire che questo percorso è stato particolarmente forte nel rapporto con le persone rom.
Lo dico sempre ai nuovi volontari: penso di aver dato molto al Naga, ma il Naga ha dato molto di più a me. Mi ha davvero fatto imparare tanto.
Ti ricordi un momento particolare vissuto al Naga?
Ce ne sono tanti…
Ricordo una notte gelida d’inverno, in un campo irregolare in mezzo alle sterpaglie, dove avevamo portato anche qualche indumento pesante. Avevo dato a un’anziana un mio cappotto imbottito, un lungo piumino. All’inizio è rimasta incredula, poi felice mi ha abbracciata e trascinata in una danza intorno al fuoco. Ci siamo scaldate ballando e ridendo.
Ricordo anche un ragazzo marocchino, di Fès: quando ha saputo che ero stata in Marocco ma non nella sua città, ha insistito per darmi il suo indirizzo. Voleva che andassi a casa sua a conoscere sua madre, che mi avrebbe ospitata volentieri, così avrei potuto visitare la sua meravigliosa città.