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I dati – Dicembre 2020

In questo numero la rubrica ospita il gruppo delle psicologhe e psicologi del Naga che raccontano la loro attività dall’inizio dell’anno.

Dall’inizio del 2020, il nostro servizio ha accolto 28 persone tramite i primi colloqui: 12 donne e 16 uomini di età comprese tra 20 e 67 anni e provenienti dall’America Centrale e Meridionale (il Perù è il Paese più rappresentato, poi Bolivia, Brasile, Honduras, El Salvador, Cuba), dall’Africa (Nigeria, Senegal, Gambia e Marocco), da Romania, Bulgaria, Ukraina e infine Filippine.

A questo numero vanno aggiunti gli invii effettuati da altri volontari dell’ambulatorio che possono segnalarci direttamente le persone che richiedono una presa in carico, e i casi che spontaneamente ritornano dopo un’interruzione.

Le diverse modalità di accesso, la discontinuità dei percorsi di cura e la gestione individuale delle prese in carico rendono complicato fare un resoconto numerico dei dati che riguardano la nostra attività.

Può essere più utile partire dalla prospettiva inversa e contare noi volontari del gruppo psicologi e psicoterapeuti, considerando che siamo attualmente una decina; due o tre di noi si occupano dei primi colloqui e gli altri portano avanti in media tra i due e i quattro casi, all’interno del turno settimanale.

Cosa facciamo, di solito…

Ogni psicoterapia o percorso di sostegno psicologico occupa un’ora alla settimana e la durata del trattamento varia molto, in relazione al progetto e agli obiettivi che nascono a partire dai primi incontri. Quindi, può capitare di vedere una persona per poche settimane, o di continuare per mesi o anche anni. Siamo abituati a considerare questa flessibilità una caratteristica del nostro lavoro, e al Naga l’uso di un setting flessibile è fondamentale per consolidare la cosiddetta “alleanza terapeutica”, quel particolare senso di fiducia e di condivisione che permette di costruire insieme al paziente un intervento efficace. Con le persone che incontriamo al Naga, a causa dei loro percorsi di vita complicati e della loro quotidianità fatta molto spesso di precariato lavorativo e di relazioni instabili, dobbiamo rinunciare alla “ottimale” cadenza settimanale e concentrarci su altri aspetti del setting, meno formali e più sostanziali. Quali aspettative possiamo condividere circa il percorso di cura psicologica? Quali obiettivi e quali metodi? La base è formulare un progetto comune, per poi costruire uno spazio dove comunicare in modo “altro”, e a volte si riesce addirittura a condividere delle teorie e a costruire un dialogo molto intenso e profondo. A volte invece il progetto si disgrega, il contenitore cede, i pazienti scompaiono all’improvviso; altre volte ritornano dopo un po’ di tempo, presentando varie giustificazioni, per riprendere un discorso che insiste nel cercare soluzioni.

I motivi per cui i nostri pazienti ci chiedono aiuto hanno a che fare con ansia, attacchi di panico, depressione, disturbi psicosomatici, problemi relazionali. Quasi sempre l’origine di questi disturbi è complessa e affonda le radici nelle storie traumatiche, familiari e di migrazione, di queste persone.

Proprio per la complessità dei casi che incontriamo, è vitale poter contare sulla comunicazione e collaborazione reciproca con i colleghi medici dell’ambulatorio del Naga. In particolare, abbiamo un rapporto stretto con le psichiatre per prescrizioni e monitoraggio di trattamenti farmacologici che sovente accompagnano le psicoterapie.

ll linguaggio del corpo, la domanda d’aiuto concentrata sul sintomo e la richiesta di una rapida scomparsa del dolore possono a volte andare nella direzione di un’aspettativa magica nei confronti della cura.

Spesso lo spazio del colloquio diviene un luogo di mediazione tra questi aspetti e il nostro discorso, scientifico e occidentale, che pure taluni pazienti già conoscono e condividono.

In altri casi, venire da noi funziona come antidoto all’isolamento sociale, alla solitudine e diventa un modo di esprimere un bisogno di riconoscimento. Così, i pazienti si accorgono dell’utilità di raccontare la propria esperienza di migrazione, per ricostruire un senso di continuità nel proprio Sè, per rielaborare i ricordi che costruiscono la propria storia e creare un ponte tra il paese di origine e il paese di accoglienza.

Nel corso del 2020, ulteriori tensioni hanno messo tutti alla prova… con ripercussioni su tutti i livelli.

.. e cosa è cambiato da marzo in poi.

La nostra stanza per i colloqui si è trasformata in uno spazio più distanziante, è stato necessario rispettare le nuove regole di igiene e imparare a capirsi non solo oltre le barriere linguistico-culturali, ma anche oltre le mascherine e il plexiglass. Oppure al di là del monitor, dal momento in cui molte delle nostre attività sono state trasferite online.

Ognuno di noi ha deciso individualmente come agire, scegliendo tra le opzioni di proseguire in presenza in ambulatorio, che, come sappiamo, ha continuato a operare continuativamente anche durante il lockdown, oppure spostarsi online, verificando con i pazienti la loro disponibilità di una connessione internet e di un’ora di privacy. Alcuni di noi hanno dovuto sospendere le attività, e alla fine del 2020, siamo tuttora in attesa di ritrovare il nostro gruppo al completo…

Con l’arrivo dell’emergenza Covid, abbiamo messo a disposizione un servizio da remoto con indicazioni fornite sul sito del Naga o tramite contatto diretto con i volontari dell’accoglienza e dell’ambulatorio. Questa iniziativa ha raccolto pochi nuovi contatti. Abbiamo anche telefonato a tutte le persone che erano rimaste in lista d’attesa all’inizio di marzo, per mantenere i contatti con loro e verificare il loro stato di salute e le loro possibilità di provvedere ai bisogni essenziali. In alcuni casi, abbiamo segnalato loro i servizi attivati dal Comune o da altre associazioni per la consegna di alimentari o altri sportelli di ascolto dedicati all’emergenza Covid.

In mancanza di riservatezza a casa, alcuni pazienti hanno attivato fantasia e risorse e hanno proseguito con costanza nel percorso intrapreso al Naga ricreandosi un loro personale “setting” durante una passeggiata al parco, dall’auto, da una stanza prestata da amici…

Ma al di là di questa nota gradevole, come era prevedibile, la fragilità dei nostri pazienti è divenuta ancora più evidente in tempi di pandemia, o più precisamente di sindemia, come puntualmente sottolineato durante il nostro ultimo seminario dal dott. Maciocco.

L’incrocio della pandemia con le malattie croniche ha un risvolto preoccupante sul versante psicologico. Possiamo constatarlo anche nei colloqui con i nostri pazienti, pur con ampie differenze nella tipologia e nell’intensità delle sofferenze  che ci  riferiscono.

Alcune osservazioni in ordine sparso

Per quanto riguarda i contenuti trattati, abbiamo riscontrato grande variabilità. Alcuni pazienti hanno proseguito sulle tematiche personali già oggetto del lavoro terapeutico; altri hanno sentito il bisogno di soffermarsi sulla pandemia e sugli effetti di questa sulla propria famiglia lontana, sulla situazione lavorativa, sul bisogno di  riorganizzare le giornate e di contrastare lo stress.

La mancanza di informazioni chiare e confortanti, anzi la presenza invadente di fake news e di ogni genere di comunicazioni confusive sul virus, insieme alla solitudine, all’isolamento e all’inattività lavorativa, hanno generato una pervasiva sospettosità di tipo paranoide. Questo esito infausto della combinazione di più elementi sfavorevoli ha colpito molti esseri umani, e più duramente la popolazione socialmente ed economicamente fragile.

Nei casi in cui il lavoro sia stato il centro dell’esperienza migratoria e la spinta alla partenza, l’incapacità di inviare denaro ai familiari finisce per bloccare la realizzazione del progetto migratorio e fa sperimentare senso di colpa, sentimenti depressivi e mortiferi.

I pericoli maggiori riguardano le personalità fragili, in cui si può verificare un cedimento delle difese, sotto il peso dello stress e dell’angoscia di morte riferito a sè o ai familiari, con possibili scompensi in senso depressivo o paranoide.

La possibilità di ammalarci all’improvviso e di morire, diventata ora presente nella quotidianità, non più negabile (… se non a caro prezzo in termini di equilibrio psicologico), mette in tensione i meccanismi di difesa e le risorse psicofisiche di tutti noi.

Isam Idris, psicologo e antropologo, lo scorso maggio ha tenuto un webinar, cui i colleghi di Crinali ci hanno invitato, sulle rappresentazioni culturali del Covid. Come passare “dall’angoscia alla rappresentazione”? Questa volta gli adulti sono più colpiti rispetto ai bambini, e non sono capaci di rassicurarli. A livello inconscio, assistiamo al fallimento della medicina come agente in grado di tenere sotto controllo le malattie. Il trauma è collettivo, ma è vissuto in maniera individuale. La morte in isolamento, non ritualizzabile; i morti che non possono trasformarsi in antenati; le sepolture collettive che rimandano alle guerre, a situazioni di anormalità, dove la morte è una “mala morte”, non rappresentabile, non pensabile, non accettabile.

Alcuni nostri pazienti hanno manifestato sintomi ansiosi alternati all’attivarsi di difese come la negazione della possibilità di contagio.

Il lockdown è stato per alcuni un riattivatore di vissuti traumatici legati a una condizione di detenzione e isolamento vissuta durante il viaggio migratorio.

Molti pazienti, soprattutto quelli con cui il rapporto è ben consolidato, si preoccupano per noi terapeuti e ci chiedono come stiamo noi e le nostre famiglie. La pandemia ci fa sentire tutti ugualmente vulnerabili, esposti a un rischio invisibile che ha colto tutti di sorpresa. Quando siamo al di là del monitor, forse diventiamo anche noi simili alla loro terra lontana.

Anche in questo 2020 la finalità costante e trasversale a tutti i nostri interventi  è stata la cura del legame, che seppur con strumenti inconsueti rende possibile  contrastare l’isolamento. 

Con i pazienti più vulnerabili,la nostra funzione è quella che definiamo “psicoeducativa”, cioè indirizzata a fornire indicazioni su come prendersi cura di sé attraverso l’attività fisica quotidiana, l’alimentazione, l’organizzazione del tempo libero e la gestione delle informazioni (ad esempio, il ben noto consiglio di evitare una sovraesposizione a notizie sulla pandemia!)

In alcuni casi è stato possibile utilizzare tecniche di stabilizzazione anche a distanza. L’approccio EMDR, uno dei modelli di psicoterapia da noi già usati al Naga con i pazienti gravemente traumatizzati, propone metodi attivi efficaci anche nelle situazioni in cui l’evento stressante sia ancora in corso. Gli esercizi di respirazione, combinati con tecniche di mindfulness e alle stimolazioni bilaterali dell’EMDR, ci hanno consentito di portare sollievo a pazienti in sofferenza a causa dell’esperienza del lockdown o di situazioni di malattia di familiari.

Il nostro intento, al di là dello specifico intervento e del particolare caso, è quello di promuovere una relazione che funzioni come contenitore per i processi di cura. Il discorso che costruiamo con i nostri pazienti cerca sempre di integrare aspetti scientifici e culturali, mai di escludere conoscenze ed interpretazioni della realtà. Tutti i pazienti del Naga, del resto, ci insegnano a tenere conto della complessità.

I risultati del nostro lavoro

Laddove siamo riusciti a mantenere attiva e vitale la relazione con i nostri pazienti, i loro riscontri sono stati paragonabili a quelli degli scorsi anni. Di solito i commenti mettono in luce una riduzione almeno parziale della sintomatologia, a livello di benessere mentale e anche fisico. Riduzione del livello di sofferenza, aumento della fiducia in sè e del senso di autoefficacia, miglioramento nelle relazioni: raggiungere questi obiettivi ha un importante effetto di prevenzione.

Un’ultima osservazione: anche quest’anno abbiamo avuto la consueta conferma di quanto sia arduo inviare persone al di fuori del Naga, malgrado abbiano STP o tessera sanitaria. I reparti di psichiatria (vedi Niguarda, contattato recentemente un paio di volte) sono accessibili, ma con difficoltà, mentre praticamente nulle sono le possibilità di fare invii a psicologi che lavorino nei servizi. La psicoterapia a livello territoriale per i nostri utenti (ma anche per i cittadini con passaporto italiano…) continua ad essere un’utopia, o tutt’al più una possibilità con tempi limitati. Questo risulta allarmante, se ci mettiamo in ascolto del segnale di sofferenza che giunge dalla popolazione più fragile, quest’anno forse ancora più drammaticamente.

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