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Intervista – Video intervista a Silvia Maraone e Caterina Bove

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Violenza e privazioni dei diritti dentro la fortezza Europa

DAVIDE FRACASSO: Ciao a tutti, sono Davide, dell’Osservatorio del Naga. Oggi parleremo della situazione nella cosiddetta “rotta balcanica” con Silvia Maraone di IPSIA – Istituto Pace Sviluppo Innovazione Acli e Caterina Bove, avvocato di ASGI – Associazione Studi Giuridici Immigrazione. Visto che Silvia si trova in Bosnia, a Bihac, le chiederei com’è la situazione attuale e di farci una descrizione delle persone che sono lì e di come si stanno svolgendo i fatti.

SILVIA MARAONE: la rotta balcanica è un corridoio migratorio che, a partire dalla Grecia, quindi unendosi alla rotta del mare del Mediterraneo Orientale, va a risalire lungo alcuni dei paesi dei balcani, puntando poi all’uscita verso i Paesi europei, in particolare l’area Schengen. È una rotta che in realtà è salita agli onori della cronaca nel 2015, quando 850 mila persone sono passate di qua e teoricamente dovrebbe essere una rotta chiusa perché c’è un accordo del marzo 2016 che prevede che la Turchia, a fronte di impegni politici dell’Unione Europea e soldi, dovrebbe gestire tutti i rifugiati migranti sul proprio territorio. Tant’è che lì si è creata una sacca con 3 milioni e 600 mila persone in attesa di uno status o di un ricollocamento.
Questi elementi geografici e questi numeri sono importanti per capire da dove vengono le persone che ancora oggi in realtà sono su questa rotta che chiusa non è. Le persone fanno più fatica ad attraversare i Paesi, i confini, soprattutto a nord della Serbia. L’Ungheria, la Croazia sono diventate sempre più invalicabili, motivo per cui dal 2018 anche la Bosnia-Erzegovina è diventato uno sbocco di questa rotta. Come possiamo immaginare, visto che di fatto questa rotta parte dalla Turchia, la maggior parte delle persone proviene dai paesi dell’Asia centro meridionale e del Medio Oriente.
In particolare negli ultimi anni la presenza massiccia di persone provenienti da Afghanistan e Pakistan ha superato in parte quella che era invece la prima ondata fatta in principal modo da siriani e iracheni. Ancora oggi abbiamo appunto afghani, pachistani, siriani, iracheni, iraniani, bengalesi, nepalesi, marocchini, algerini. Questa rotta è attraversata non solo da “single man”, quelli che appunto tanti tacciano per essere solamente migranti economici, ma anche da tante famiglie e bambini. In realtà, andando a vedere la storia personale di ognuno, è una persona che sta cercando condizioni di vita migliori, di scappare da situazioni di crisi importanti. Persone che scappano da posti in cui la violazione dei diritti umani, oltre che la sicurezza, sono a rischio ogni giorno.

DAVIDE FRACASSO: Silvia, ti chiederei, visto che noi ne sentiamo ovviamente tantissimo parlare e fortunatamente l’opinione pubblica se ne occupa, com’è la situazione dell’accoglienza? Quanto incide la recente e molto travagliata storia dei Balcani? Il contesto incide su ciò che sta accadendo?

SILVIA MARAONE: questo ha inciso in modo particolare nel contesto nel quale mi trovo a operare, in Bosnia-Erzegovina. In Grecia e in Serbia i governi hanno allestito centri di transito, centri per i richiedenti asilo per cui sono riusciti in qualche modo, tranne che sulle isole greche, a trovare una soluzione che è quanto meno dignitosa. Soprattutto in Serbia in realtà ci sono 8.000 persone bloccate, come numero di giacenza media, e 19 centri gestiti dal governo. Questa filosofia di riempire i Paesi di transito di campi profughi, anziché trovare altre soluzioni, sarebbe discutibile. Però quando è stato il turno della Bosnia-Erzegovina di creare questo sistema di accoglienza per le persone in transito, quindi a partire dal 2018, lo Stato bosniaco non ha risposto. Non ha risposto nel senso che lo Stato bosniaco è diviso in tre, ancora dalla fine della guerra del 1995 e quindi ci sono una serie di tensioni mai risolte che, ancora oggi, hanno un peso sulle politiche e sulle decisioni quotidiane. Quindi lo Stato non ha voluto mettere centri nel proprio territorio, ma i centri per forza di cose si sono creati nel momento in cui migliaia di persone si sono trovate sui confini tra la Bosnia e la Croazia a cercare di attraversare. Un po’ come era successo a Idomeni, ricordate, sui confini serbo-urgheresi. In quei posti è stata l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni a dover rispondere a questo bisogno umanitario. Quindi con i fondi dell’Unione Europea, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni negli ultimi due anni e mezzo aveva creato sette centri di transito-accoglienza, ne sono rimasti in realtà aperti solamente cinque, di cui tre sono dei campi per famiglie, uno a Sarajevo e due nella regione dove mi trovo io, nel cantone di Una-Sana. Poi ci sono due campi per “single man”, Palmira, a Velika Kladuša, e un altro vicino a Sarajevo. Il campo più grande nella regione del cantone di Una-Sana era il campo di Bira che è stato chiuso il 30 settembre. Il campo di Lipa, un centro di emergenza, una tendopoli allestita per il Covid-19, aperto nell’aprile 2020, è stato chiuso il 23 dicembre 2020 a seguito di un incendio. Da quel momento nel cantone di Una-Sana ci sono 900 persone in questo campo di tende che è stato ri-allestito dall’esercito, ma è una situazione davvero drammatica ancora oggi, e poi ci sono le persone nei centri di transito che vi ho detto prima, ma anche almeno 1.000 persone che vivono tra gli squat e i jungle camps, i boschi, le foreste, le case abbandonate. Quindi in questo momento in Bosnia ci sono 8.000 persone, solamente circa 5.500 di loro stanno all’interno dei centri ufficiali di transito. Le altre sono in sistemazioni molto provvisorie e con l’inverno che colpisce è sicuramente una situazione ancora più difficile del normale.

DAVIDE FRACASSO: Caterina, colpisce questa catastrofe umanitaria, negli ultimi giorni abbiamo sentito dei parlamentari italiani che erano stati fermati al confine. L’impressione è stata che ci sia stata una grande assenza, anche perché è una situazione che dura da anni, e questa assente sembra proprio l’Europa, perché comunque stiamo parlando di cose che avvengono dentro l’Europa. Volevo conoscere il tuo parere su questo.

CATERINA BOVE: l’Europa è stata finora fortemente assente nonostante sia edotta di quello che accade lungo la rotta balcanica e in particolare delle violenze che accadono al confine croato-bosniaco al transito in Croazia. Esistono su questo moltissimi report, Amnesty International ha pubblicato dei report, il Danish Refugee Council e altre reti di Ong hanno pubblicato tantissime testimonianze su questo. Addirittura a novembre anche il Mediatore europeo ha avviato un’indagine per il modo in cui le autorità croate non stavano garantendo il rispetto dei diritti umani nel proprio territorio nei confronti delle persone migranti. A questo però non è seguita, come sappiamo, alcuna presa di posizione della Commissione Europea e questo appunto è molto pesante, anzi, ancora adesso non c’è una posizione ufficiale che riprenda la Croazia o i Paesi della rotta balcanica anche rispetto al meccanismo delle riammissioni a catena che ormai è riportato da diverse organizzazioni. Il viaggio degli europarlamentari ha in qualche modo confermato che loro stessi non sono riusciti ad attraversare il confine, per ragioni varie, c’è stato un po’ di caos al confine. Le dinamiche non sono chiarissime, ma anche questo impedimento dimostra come la Croazia non abbia avuto alcuna ripresa ufficiale dalle Istituzioni europee. Questo chiaramente è gravissimo a fronte di quello che accade lì e che tutti sappiamo.

DAVIDE FRACASSO: secondo te qual è il margine di azione reale, è un richiamo? Ci sarebbero delle modalità per intervenire?

CATERINA BOVE: intanto la Croazia fa parte dell’Unione Europea, quindi è un Paese che chiaramente potrebbe avere dei richiami, delle sanzioni dirette. Potrebbero esserci delle risoluzioni, delle proposte di soluzione. Però è chiaro che in questi casi bisogna agire quando si è sicuri che una risoluzione venga approvata anche da tutte le parti, tutti i partiti. Altrimenti si rischia un boomerang. Se l’Unione Europea non si dice certa di quello che sta accadendo è difficile che si arrivi a un atto formale contro la Croazia. Perciò sarebbe opportuno che queste delegazioni siano più frequenti, siano composte da più partiti anche di diversa appartenenza politica e che quindi sia sotto gli occhi di tutti ciò che sta avvenendo lì.

DAVIDE FRACASSO: Silvia, su questo tema hai anche tu qualcosa da dire? Lì, che sensazione hai sul ruolo dell’Europa?

SILVIA MARAONE: il ruolo dell’Europa verso i flussi migratori e l’immigrazione è abbastanza ormai incentrato sul rallentamento di questi flussi, attraverso la creazione di questi hotspot e la decentralizzazione delle frontiere esterne. Il meccanismo turco-europeo in cui viene pagato il governo turco per trattenere il più possibile i rifugiati lì è uguale all’accordo con la Libia e all’accordo che c’è tra Marocco e Spagna. L’idea è di fare in modo di rallentare le persone che però non si possono fermare. Per fare questo l’Unione Europea ha l’unica strategia che è quella di pagare, pagare, pagare un sacco di soldi, sia per bloccare le frontiere sia per mantenere questo sistema di limbo nel quale le persone vivono tra uno Stato e l’altro. Anziché creare questo meccanismo di detenzione, si dovrebbe cominciare a ragionare in termini più politici, quindi invitando alla responsabilità dei singoli governi a riaprire quelle che sono le cosiddette quote, i flussi. Occorre ripartire le persone in arrivo tra coloro i quali sono veramente destinati ad avere lo status di rifugiato. Quindi erogare i cosiddetti visti umanitari oppure cominciare a raccogliere in termini di creazione di lavoro e quindi dare i visti per lavoro, visti per studio, visti sanitari. Queste persone che sono in cammino non dovrebbero perdere due o tre anni della loro vita e i bambini non dovrebbero perdere anni di istruzione, non ci sarebbero tutti i traumi derivanti dal viaggio e si abbatterebbe un mercato di trafficanti che alimenta evidentemente le casse di tante realtà. Per cui, secondo me, l’Europa la risposta l’ha data eccome. L’ha data pagando e creando questo sistema, questa fortezza Europa. Ma non è la risposta giusta che avrebbe dovuto dare. Anche perché ci facciamo sempre paladini dei diritti umani però costringiamo le persone nei confini europei a venire massacrate dalla polizia europea, dalla polizia croata, o respinte dalla Slovenia anche come sappiamo dall’Italia appunto.

DAVIDE FRACASSO: la fortezza Europa è un’espressione che sentiamo da tanti anni, eppure le politiche vanno lì. Effettivamente, come già accennavi tu, non c’è solo questa parte di limbo, ci sono anche dei casi in cui persone hanno sfidato le autorità, sono riuscite a scappare, hanno fatto il cosiddetto “game”, sono arrivate in Italia e poi si sono viste riportare da dove erano partite, in una sorta di gioco infernale. Volevo chiedere a Caterina, che è una delle protagoniste della sentenza del Tribunale di Roma che dichiara illegali queste riammissioni che ci racconti come è stato l’iter che ha portato a questo risultato così importante. Quali sono le conseguenze a cui la sentenza può portare?

CATERINA BOVE: diciamo che già nel 2018 avevamo avuto sentore di queste riammissioni che sapevamo avvenire lungo la rotta balcanica: un report di Amnesty International “Pushed to the edge” del 2019 ne aveva dato conto. Però nel 2018 la polizia si era affrettata a dichiarare che queste riammissioni non avvenivano comunque nei confronti dei richiedenti asilo. Invece da maggio del 2020 quello che abbiamo iniziato a percepire e a sapere, anche tramite le testimonianze di Ong, come quella per la quale lavora Silvia, o altre Ong che lavorano lungo la rotta balcanica, secondo le testimonianze raccolte, moltissime delle persone che erano arrivate erano richiedenti asilo. Di fronte a una interrogazione parlamentare di Riccardo Maggi a luglio 2020 il governo ha risposto con una nota scritta dichiarando nero su bianco che queste riammissioni avvenivano anche nei confronti di coloro che domandavano la protezione internazionale e che comunque sia la Croazia che la Slovenia dovevano considerarsi Paesi sicuri, ignorando tutte le notizie che appunto avevamo fornito in merito all’esistenza di questi trattamenti inumani e degradanti. A seguire abbiamo iniziato a ricevere moltissime segnalazioni di persone che ci hanno contattato dicendo di essere state respinte dall’Italia e poi, tramite un giornalista danese, siamo entrati in contatto con il ricorrente, un cittadino pachistano, che a luglio 2020 era arrivato in Italia e aveva tentato a più riprese di domandare asilo, ma era stato riammesso prima in Slovenia, poi a catena in Croazia, infine si è ritrovato nuovamente in Bosnia dove attualmente vive senza alcun riparo, cioè vivendo in edifici abbandonati.
Siamo riusciti quindi a portare questo caso di fronte al Tribunale di Roma, con la collega Anna Brambilla. Questa è una cosa molto difficile perché le persone, come ci dicono anche tutte le testimonianze, subiscono al passaggio in Croazia la sistematica distruzione di tutti i beni personali, dei documenti che vengono buttati, bruciati, dispersi volontariamente, oltre tutti gli altri maltrattamenti. Quindi è molto difficile trovare delle persone che riescano a reperire dei documenti di identità originali utili per poter fornire una procura a degli avvocati. In questo caso invece è stato possibile quindi abbiamo potuto portare questo caso davanti al Tribunale di Roma e con l’occasione chiedere di dichiarare queste riammissioni come illegali. Effettivamente il Tribunale ha aderito completamente alle nostre richieste, spiegando come queste riammissioni non solo sono illegali perché violano il diritto di asilo di chi giunge in Italia, ma anche perché, proprio considerata una situazione che esiste lungo la rotta balcanica e in particolare alla frontiera croata, esiste il concreto pericolo per chiunque giunga alla frontiera, quindi anche potenzialmente per chi non chiede la protezione internazionale, che, una volta respinto, subisca questo meccanismo di riammissione a catena e subisca dei trattamenti inumani e degradanti contrari all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. Quindi è una decisione di portata molto ampia perché si applica potenzialmente a chiunque giunga attraverso la frontiera, che fino ad ora tra l’altro veniva riammesso senza nessun provvedimento formale. La sentenza di Roma infatti spiega come anche queste procedure violino il diritto di difesa e il diritto a un ricorso effettivo, perché le persone non ricevono nessuna informativa su quello che stanno per subire e nessun provvedimento scritto. Addirittura sappiamo che vengono illuse che stanno per essere portate a un centro di accoglienza e invece poi si ritrovano scaricate al confine con la Slovenia e costrette a proseguire il cammino per attraversare la frontiera. Al momento il Ministero e le autorità di frontiera hanno dichiarato che le riammissioni sono sospese, però parlano tutti di una sospensione e non di una chiusura delle riammissioni. Già moltissimi esponenti politici e ad esempio il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia si sono apertamente esposti chiedendo che queste riammissioni vengano immediatamente riprese e dal Ministero non abbiamo avuto alcuna risposta. Il Ministero non si è costituito nella causa originaria e adesso potrebbe ancora presentare un reclamo. Quindi siamo in attesa di capire gli sviluppi.

DAVIDE FRACASSO: effettivamente parliamo di negazione del diritto d’asilo. Leggendo la sentenza mi colpiva questo particolare, al Naga siamo abbastanza abituati purtroppo a questa pratica che non avviene solo lungo il confine, ma anche nelle città italiane.
Andiamo verso il finale e chiederei a entrambe, quale è il ruolo che può avere la società civile al di là di questa gara di solidarietà che, va benissimo, però rischia che sia molto legata al fattore emotivo e di opinione pubblica. Quale ruolo può avere la società civile in questo tipo di situazione e se ci può essere un’influenza positiva, una pressione?

SILVIA MARAONE: la risposta che ci sta arrivando rispetto alla tematica contingente dell’emergenza a Lipa è straordinaria. Ormai in questo ultimo mese e mezzo ho avuto il telefono, la mail completamente intasati, messaggi da ogni dove, gente che vuole raccogliere e portare aiuti che in questo momento raccogliamo, quindi non portate qua in Bosnia furgoni di cose perché non abbiamo più un posto dove metterle, abbiamo i magazzini nel caos più totale. Invece ci sono dei costi che potrebbero essere utilizzati direttamente in loco per comprare le cose nuove. Però al di là di questo, penso che la cosa più interessante sia stata la risposta a livello di comunicazione e di media, nel senso che tanto quanto mi scrivono persone che vogliono aiutare, tanto quanto sono spesso invitata a parlare a conferenze, incontri online, ma anche il lavoro dei giornalisti che stanno seguendo molto quello che accade. E quindi è lì che secondo me bisogna giocare una parte, ovvero il discorso è che sappiamo che questa rotta esiste ed esisterà anche dopo l’emergenza di Lipa e quindi bisogna in un certo senso mantenere alta l’attenzione su quello che accade nei Balcani, perché siamo tra l’altro già in Europa. Le persone appunto quando attraversano la rotta balcanica entrano in Europa, prima in Grecia, quindi già da lì bisognerebbe aprire mille riflessioni. Però, secondo me, il ruolo della società civile, al di là di quello di dare sostegno e voce agli operatori e ai professionisti che si trovano qua e che quindi sono loro che fanno il lavoro tecnico, sul campo, può avere un ruolo fondamentale nell’atto di denuncia perché quello che raccontava anche Caterina, quello che vediamo noi tutti i giorni, è una violazione costante dei diritti umani. Per cui più persone ne continuano a parlare, più persone denunciano ciò che accade sui confini in Europa più, io mi auguro prima o poi, l’Unione Europea stessa o singoli stati diranno basta a questo trattamento che avviene sui confini: pestaggi, violenze, da parte di poliziotti ungheresi, rumeni, croati, veramente andati ben oltre ogni sostenibilità. Eppure si continua a fare. Quindi appunto chiedere un cambiamento politico, è quello che secondo me continua a essere il ruolo principale della società civile in questo momento.

CATERINA BOVE: sono completamente d’accordo. È importante in questo momento che tutti ci attiviamo per discutere, per sollecitare un pensiero positivo sui canali di ingresso regolari che appunto impedirebbero questo scempio che avviene alle frontiere dell’Unione Europea. Canali d’ingresso per ricerca lavoro, canali d’ingresso per visti umanitari, perché al momento la situazione paradossale è questa: per poter chiedere una protezione in uno Stato europeo devi passare per delle violenze inaudite che spesso, come sappiamo, sono addirittura peggiori delle violenze e dei rischi da cui sei scappato. È una condizione terribile che tutti noi cittadini europei dovremmo contrastare. I canali di ingresso potrebbero giovare all’intera società, anche perché le persone provano questi viaggi del mare o della rotta balcanica moltissime volte, e scappando da un pericolo grandissimo non tornano comunque più indietro. Quando arrivano, arrivano in situazioni ancora più devastate di come sarebbero arrivate senza tutte queste torture. Tutta questa attenzione che c’è adesso sulle violenze che avvengono lì, è uno spunto importante per capire quanto i canali di ingresso regolari possano essere importanti per evitare tutto questo.

DAVIDE FRACASSO: Vi ringrazio. Come Osservatorio del Naga ci siamo immaginati, tra un po’ di mesi, quando il tema sarà un po’ meno al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, di tornare e vedere com’è la situazione, come si sono sviluppate le cose. Quindi magari vi ridisturberemo per capire a che punto siamo. Ringrazio Silvia Maraone e Caterina Bove.

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