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Intervista – Video intervista a Martina Lo Cascio

Martina Lo Cascio, ricercatrice e attivista di Contadinazioni Fuori Mercato

http://www.youtube.com/watch?v=Dqrtdepo1Ls

Dar voce a chi si vuol far tacere: i lavoratori migranti

MARTA PEPE: buongiorno a tutti, eccoci con una nuova intervista per la newsletter Fuorivista dell’Osservatorio del Naga. Oggi parleremo di lavoro ai tempi del Covid19 e dello sfruttamento strutturale dei cittadini stranieri. Intervistiamo Martina Lo Cascio, ricercatrice all’Università di Parma e attivista di Contadinazioni Fuori Mercato.

Martina, ti chiederei di presentarti e poi di rispondere a questa prima domanda: il Covid ha messo in evidenza l’importanza di alcuni lavori, da sempre posizionati, sia in termini di salario sia in termini di prestigio, nei gradini più bassi della scala gerarchica. Si è verificato un ribaltamento delle gerarchie. Lavori di cura così come lavori legati alla pulizia e all’igienizzazione degli ambienti sono ormai considerati essenziali. Questo fa emergere in modo dirompente la contraddizione tra il loro alto valore in termini di utilità sociale (è qui il valore dell’essenzialità) e il basso riconoscimento in termini di condizioni salariali e contrattuali. Come si spiega? Come è possibile, secondo te, attivare un cambio di paradigma?

MARTINA LO CASCIO: Ciao a tutti e a tutte, sono Martina e sono attivista di Contadinazioni Fuori Mercato, un gruppo informale, un collettivo che agisce tra la provincia di Trapani e la provincia di Palermo, sul doppio livello di sostegno da una parte all’agricoltura contadina e dall’altra ai lavoratori migranti sfruttati nella filiera olivicola del trapanese. Il nostro collettivo, la nostra riflessione, quindi di fatto anche il mio percorso di ricerca, nasce in questo territorio, su questo tema e dall’incontro di chi vive in questo contesto. E’ chiaro che nel dibattito che si è sviluppato in seguito allo scoppio della pandemia, certi elementi sono emersi con forza, direi appunto che si sono consolidati. Si è sicuramente imposto questo tema. Abbiamo visto per la prima volta in modo così preciso e frequente, associare il termine “essenziale” alle attività produttive, ma anche alle nostre attività quotidiane e alle relazioni. Abbiamo visto definire quali relazioni siano considerate legittime ed essenziali e, quindi, da mantenere, e quali no. Di fatto si è rafforzato e consolidato un modello di darwinismo sociale che ha avuto la necessità di definire cosa sia essenziale per il mantenimento e la vita del capitale; quindi, quali attori siano necessari per la sopravvivenza di un determinato sistema. Contestualmente si è sentita la necessità di definire quale tipologia di persone sia improduttiva, inabile e al contempo indesiderabile. Quindi cosa è essenziale e contestualmente cosa è sacrificabile. In questo quadro il ruolo dei migranti è stato sicuramente centrale, un dato tra tutti è quello della quota dei lavoratori migranti impiegati in quelle che sono state definite le attività essenziali in Europa, una quota del 13%, che è rilevante e che indica anche che i lavoratori essenziali non sono soltanto i migranti. Il fatto di essere lavoratore essenziale, si è tradotto nella necessità, nell’obbligo, nella maggior parte dei casi, di essere un lavoratore in prima linea, costretto a lavorare, a essere impiegato in un’attività che deve essere in qualche modo mantenuta, privo delle garanzie di tutela della propria salute. Nello stesso tempo, non essere un lavoratore essenziale, nella maggior parte dei casi, è significato rimanere a casa, privo di lavoro e privo di qualsiasi tutela. Quindi, di fatto, il termine essenziale per come l’abbiamo sentito, per come è stato utilizzato, sta a significare un lavoro meno tutelato, più precario, sicuramente poco valorizzato dal punto di vista salariale, ma utile e necessario al funzionamento di un sistema che mette al centro la sopravvivenza dei profitti e non delle persone. In questo contesto il sistema agroalimentare è stato sicuramente uno di quelli al centro del dibattito, proprio perché è importante per la produzione di valore nel sistema capitalistico e al contempo per la riproduzione del sistema, per la riproduzione della forza lavoro e per la riproduzione del sistema stesso. E’ necessario il contenimento dei prezzi dei prodotti finali e della forza lavoro. Non è una novità, ma nell’ultimo anno questo si è tradotto appunto nell’attenzione al cibo e alla sua connessione con il concetto di salute. Un’attenzione particolare è rivolta alle fragilità delle filiere delle catene globali, accompagnata dalla paura della mancanza dell’approvvigionamento, e contestualmente, come abbiamo già detto, si è vista la centralità dei migranti per le raccolte e il mantenimento del processo produttivo. Questo ha di fatto significato che in Europa proliferassero diversi tipi di interventi normativi che si sono concentrati su due aspetti: il mantenimento della mobilità dei lavoratori e la regolarizzazione funzionale al mantenimento della raccolta. Quindi abbiamo visto in Inghilterra, Germania e Austria l’organizzazione di veri e propri charter per deportare i migranti perlopiù dalla Bulgaria, Romania e dalla Polonia per mantenere le raccolte o in Italia e Spagna delle richieste da parte delle associazioni padronali, delle associazioni di categorie di intervenire per una maggiore flessibilizzazione della possibilità di impiegare manodopera e quindi della regolarizzazione funzionale a questo. E’ in questo contesto che nasce l’intervento che conosciamo come “Sanatoria”, quindi l’articolo 103 del decreto Rilancio del maggio del 2020, interessante perché non ha nulla di emergenziale e innovativo e si inserisce nel solco di numerosi interventi che conosciamo sul tema del contrasto allo sfruttamento lavorativo dei migranti nelle campagne. Di fatto questo intervento esplicita l’approccio utilitaristico di cui stavamo parlando, a discapito di un vero e proprio intervento che punti all’allargamento dei diritti dei lavoratori in maniera incondizionata. Non è un caso che uno degli slogan fatto proprio dai braccianti che hanno preso parola su questo provvedimento era appunto “siamo persone non siamo braccia usa e getta”, in particolare nello sciopero del maggio 2020, 10 giorni dopo l’annuncio del provvedimento. Il fatto che manchi una valorizzazione salariale dei lavoratori essenziali non è una contraddizione, ma è un dato strutturale. Va anche detto che su questa ambiguità, ovvero sull’importanza e sul valore sociale di questi lavoratori giochi molto la rappresentazione mediatica e pubblica. In questo senso è interessante ricordare le lacrime della Ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova nel momento in cui annuncia in conferenza stampa l’introduzione di questo articolo, dal titolo “Emersione dei rapporti di lavoro”, sottolineando come questo intervento, cito testualmente,  abbia l’obiettivo “di far sì che gli invisibili non siano più invisibili”. L’intervento è indirizzato a quelli che sono stati brutalmente sfruttati nelle campagne. Di fatto con il senno di poi, mesi dopo, i dati, sia delle domande sia delle mancate risposte che ci sono state rispetto alla sanatoria, ci dicono che non è stato un intervento riuscito. Sappiamo che sicuramente, sebbene il dato non sia da sottovalutare, 30.000 sono le persone, i lavoratori subordinati che hanno creduto e hanno avuto accesso alla sanatoria. 30.000 persone non è un dato irrilevante ed è un dato che non raggiunge l’obiettivo sperato da chi ha pensato l’intervento, ma possiamo dire con certezza che non è un intervento che ha interessato gli invisibili di questa categoria. “L’esiguità dei numeri si registra soprattutto nel settore agricolo: le richieste saranno alla fine al di sotto delle trentamila domande (29.555 per la precisione), una cifra ragguardevole ma che contrasta con le previsioni avanzate che paventavano 75.000 domande (Boeri et al. 2020) e con i risultati raggiunti nell’altro settore chiave dell’emersione, il lavoro domestico, dove verranno raccolte 176.848 istanze di emersione” (Caruso F., Lo Cascio M. 2020). A me il termine “invisibile” non piace, ma sicuramente sappiamo che la sanatoria non è stato uno strumento che è stato in qualche modo accessibile all’ultimo anello dei lavoratori impiegati in agricoltura, quindi i lavoratori che vivono nei ghetti e che hanno continuato a vivere nei ghetti durante la pandemia. Da questo punto di vista è bene chiarire questa contraddizione, ed essere in qualche modo consapevoli che lo stesso concetto di sanatoria porta con sé una visione che considera l’irregolarità come un elemento congiunturale e per questo sanabile. Di fatto è un elemento strutturale, frutto delle politiche migratorie sul lavoro. Sappiamo che questa visione emergenziale, che nasce fin dalla fase dell’arrivo e dell’accoglienza, di fatto viene presa in prestito e utilizzata per il disciplinamento del mercato del lavoro migrante. Di fatto possiamo dire che siamo di fronte a un utilizzo della crisi sanitaria come alibi per riprodurre un’ottica emergenziale: un’altra emergenza da utilizzare all’interno di questo modo di pensare la manodopera migrante. L’altro aspetto importante su cui è importante concentrarsi per un corretto utilizzo dei termini è che questi interventi (in particolare mi focalizzo sugli interventi finalizzati al contrasto al caporalato e allo sfruttamento lavorativo) sono stati molto numerosi dallo scoppio della rivolta di Rosarno in poi, per lo più affrontando la questione dell’emergenza abitativa e costruendo un modello di gestione in mano al terzo settore, alla Croce Rossa, alla Protezione Civile. E ciò ha creato un’ulteriore gerarchia tra i lavoratori stessi, ovvero la legittimità per alcuni lavoratori di accedere alle tendopoli ufficiali e l’esclusione per tanti altri che hanno continuato a vivere negli insediamenti considerati illegali e di tanto in tanto platealmente anche distrutti con le ruspe. Questa visione oltre che emergenziale porta con sé un ulteriore elemento importante che è quello della presa in carico e vittimizzazione di chi è incluso in questo sistema. Il lavoratore che ha accesso alla tendopoli ha diritto a un miglioramento delle proprie condizioni di vita che spesso si traduce nell’accesso all’acqua e alla corrente elettrica in cambio di un maggiore controllo della propria vita e una riduzione netta della propria autonomia. Uno dei temi spesso dibattuti, quando nasce una nuova tendopoli, è appunto quello della possibilità o meno dell’autonomia nel cucinare, e questo è uno dei bisogni principali, anche se può sembrare marginale o lontano dalla costruzione appunto di interventi normativi e non solo.

MARTA PEPE : Vediamo che lo sfruttamento lavorativo in generale passa attraverso molte variabili anche diverse tra di loro, ma fra queste l’assegnazione razziale, a nostro avviso, ha sicuramente un suo peso. Secondo te quanto incide?

MARTINA LO CASCIO: se diamo per buono che l’obiettivo di questo sistema sia quello appunto di creare profitti anche da un bene primario come il cibo e di farlo avvalendosi di una manodopera a basso costo e flessibile, disciplinata e in eccesso per come appunto abbiamo visto poc’anzi, possiamo comprendere come questo venga raggiunto anche attraverso l’utilizzo del dispositivo della razza. Nella nostra esperienza e nella nostra analisi abbiamo visto come la razza abbia una ricaduta materiale nella gerarchia e nella frammentazione dei lavoratori. E come questo di fatto vada di pari passo con la trasformazione e la riorganizzazione del sistema produttivo. Per comprendere questo elemento basta guardare a come è cambiata l’agricoltura negli ultimi trent’anni. Di fatto con il crescere del modello delle catene globali, gestite dai supermarket, quindi dalla distribuzione organizzata, abbiamo visto la morte di milioni di piccole aziende, quindi l’imposizione di un modello agroindustriale e di fatto abbiamo visto anche la crescita dei migranti nella manodopera subordinata. All’inizio degli anni ’80, il momento in cui inizia la trasformazione dell’agricoltura italiana, i lavoratori migranti censiti erano soltanto 23.000, oggi sono circa 400mila e sono quasi un terzo del totale del lavoro subordinato, quindi da questo punto di vista si impone il lavoro migrante come un elemento strutturale al cambiare dell’agricoltura stessa. Di fatto via via dall’osservazione dei dati, di come avviene il lavoro qui attorno a noi, abbiamo visto come la razzializzazione passa anche attraverso una differenza delle condizioni abitative e questa è legata anche alle differenze delle modalità produttive. Per fare un esempio concreto, la fascia agricola intorno a Ragusa e Vittoria è principalmente caratterizzata dalla presenza di manodopera albanese, rumena e marocchina ed è un’agricoltura de-stagionalizzata. Quindi si è riusciti a piegare il modello produttivo alle necessità agroindustriali e in quel contesto l’informalità abitativa è diversamente strutturata, non ci sono infatti i ghetti classicamente intesi. A Campobello di Mazara, benchè l’olivicolturasi sia industrializzata, abbiamo ancora una coltura stagionale. Nelle colture stagionali è più facile che ci siano insediamenti informali e negli insediamenti informali è più facile che ci siano i lavoratori sub-sahariani. Quindi c’è una differenza: la differenza razziale corrisponde anche alle differenze di condizioni di vita e ha un effetto materiale anche rispetto alla corrispondenza salariale. Spesso nel nostro contesto si viene pagati a cottimo. Il valore salariale viene appunto riconosciuto in base al colore della pelle e quindi all’assegnazione razziale. Banalmente a Campobello di Mazara una cassetta di olive raccolta da un senegalese vale 3,50 euro, mentre una cassetta raccolta da un tunisino ne vale 4,00 e da un italiano può valere anche 4,50 euro. Quindi vediamo come la razza sia assolutamente un elemento che viene utilizzato nell’organizzazione e nel disciplinamento della forza lavoro.

MARTA PEPE: grazie Martina, sei stata chiarissima. Ti faccio l’ultima domanda: qual è secondo te la condizione necessaria perché le organizzazioni sindacali, tutte ma anche quelle maggiormente rappresentative scelgano di occuparsi e di rappresentare le istanze dei lavoratori stranieri che sono tra quelli maggiormente sfruttati? Che presupposti esistono per questo?

MARTINA LO CASCIO: il primo presupposto è rendersi conto che delle forme di organizzazione già esistono e spesso invisibili agli occhi di studiosi, di noi attivisti o anche di sindacati. Le forme auto organizzate di vita negli insediamenti informali esistono e in qualche modo il primo passo è appunto quello di riconoscerle e di sostenerle, mettendosi in ascolto e a disposizione delle istanze che emergono da questi contesti. Questo è ancora più importante proprio perché è possibile vedere come i numerosi interventi normativi, tra i quali anche l’impegno di una spesa pubblica ingente, che si aggira intorno a milioni di euro solo nello scorso anno, siano caratterizzati da un elemento comune, ovvero dalla riproduzione del sistema di cui parlavamo, dall’incapacità di ridurre ed eliminare le indicibili condizioni igienico-sanitarie e dalla totale assenza di ascolto del punto di vista dei lavoratori stessi. Quindi è importante, secondo la nostra esperienza e secondo anche l’esperienza di realtà con cui siamo in rete, sostenere materialmente le reti e dare risposte concrete e materiali a chi subisce in qualche modo gli effetti dell’organizzazione di questo sistema agroalimentare. Quindi sostenere i lavoratori migranti. A esempio nell’ultimo anno la nostra attività principale è stata la campagna “portiamo l’acqua al ghetto” che teneva insieme due elementi, il sostegno all’insediamento informale con un elemento di base come quello dell’acqua, che è diventato centrale durante la pandemia, ma allo stesso tempo utilizzare questa campagna come strumento di sostegno all’auto organizzazione dei migranti in modo tale da sostenere il processo di presa di parola. Contestualmente un altro elemento importante è quello della creazione di alleanze tra soggetti, tra lavoratori che sono stati definiti essenziali, e tra chi è stato considerato improduttivo e indesiderabile da questo sistema ed è vittima doppiamente della crisi sanitaria ed economica che stiamo vivendo. E’ importante creare alleanze e sostenere anche il rafforzamento, la nascita, il consolidamento di alternative a questo tipo di sistema. In questo senso parlando di lavoratori migranti e impiegati in agricoltura il sostegno all’agricoltura contadina per noi è un elemento altrettanto centrale. Sono tutti elementi che un sindacato o organizzazioni che si pongono la questione del sostegno ai lavoratori dovrebbero in qualche modo con strumenti diversi tenere insieme per essere utili in qualche modo.

MARTA PEPE: grazie Martina, è stato molto interessante, ti ringrazio a nome di tutto il gruppo Osservatorio e a nome di tutto il Naga. Speriamo di rincontrarti presto.

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