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Intervista – Video intervista a Shahram Khosravi

Shahram Khosravi, Professore di Antropologia sociale all’Università di Stoccolma

Ascolta l’audio originale dell’intervista (in inglese).

La percezione del confine

MC: Ciao a tutti, benvenuti a Fuorivista, la newsletter online dell’Osservatorio del Naga.
Oggi parleremo di Percezione dei confini. Ci fa molto piacere avere ospite Shahram Khosravi. Shahram Khosravi è Professore di Antropologia sociale all’Università di Stoccolma, i suoi campi di ricerca includono antropologia dell’Iran e del Medio Oriente, migrazioni, diritti umani, deportazioni forzate. È autore di numerosi libri, poco fa ricordavamo che nel 2019 a Milano abbiamo avuto l’opportunità di ospitare una presentazione del suo libro The Illegal Traveller, an autoethnography of borders tradotto in italiano in Io sono confine – un libro davvero da leggere. Quindi Shahram di nuovo benvenuto.

SK: Grazie mille, grazie di ospitarmi, è fantastico essere di nuovo al Naga.

MC: Oggi vorremmo cominciare la nostra conversazione partendo dal significato dei confini. Il 2020 ha portato con sé una maggiore percezione del confine fisico, specialmente in parti del mondo non abituate ormai a restrizioni di alcune libertà fondamentali.
Che significato hanno i confini?

SK: Penso che per rispondere a questa domanda dovremmo pensare ai confini non in termini di linee e ostacoli naturali, ma piuttosto intenderli in quanto pratiche, una serie di pratiche che possono avvenire nell’area di confine così come in altri luoghi. I confini sono pratiche che escludono ma anche includono le persone nei più vari e specifici modi, possiamo quindi parlare di diverse tipologie di inclusione che le persone possono provare, di inclusione condizionata a certi fattori. Si tratta di razza e di razzismo. Tengo a enfatizzare questo aspetto quando si parla di razza e razzismo legato ai confini, perché è centrale. I confini non vengono da Dio o dalla natura, siamo stati noi a crearli, e neanche troppo tempo fa. Ma oggi li diamo così per scontati, per dati, che non immaginiamo un mondo o una vita possibile senza confini. Si sono addentrati in noi e in ogni singolo dettaglio della nostra vita strutturando non solo la mobilità e il nostro senso di appartenenza ma anche la nostra immaginazione. I confini e il loro impatto sulla nostra immaginazione e come pensiamo il mondo sono recenti e rappresentano elementi importanti su cui riflettere.
Questo è ciò che penso dei confini oggi in senso generale, vale sia per i confini visibili, concreti, di quando attraversiamo il confine tra uno Stato e l’altro, che vediamo, in cui siamo fermati, controllati, alcune volte rigettati ed espulsi, sia di quelli che non vediamo, i confini invisibili. Quando parlo di confini invisibili mi riferisco alle pratiche di discriminazione razziale ed esclusione che possono avvenire ovunque, anche nel centro di Milano, non per forza al confine italiano, ma dappertutto. È bene aggiungere che i confini operano una selezione dei corpi, non tutti siamo oggetto dei confini. Questo è forse il perché della scelta del titolo del mio libro in italiano Io sono confine: non tutti siamo bersaglio dei confini, alcune persone lo sono più di altre.

MC: Come stavi dicendo, molte persone immigrate vivono in situazioni di confine, “in lockdown”. Nell’iter di richiesta di Protezione Internazionale o nella quotidianità senza permessi di soggiorno validi, possono conoscere per anni cosa significhi l’esclusione dalla società in uno spazio e tempo altro. Citando da Io sono confine, “I migranti senza documenti, oltre a non avere diritto all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alla protezione della polizia, al lavoro, non hanno diritto neppure ai rapporti sociali o alla libertà di movimento negli spazi pubblici”.
Imparando da quest’anno, può l’Unione Europea implementare misure efficaci per proteggere i diritti fondamentali di tutti? Possiamo noi, in quanto persone che vivono nell’Unione Europea, trovare oggi maggiori comunanze per spingere a un cambiamento?

SK: Penso che questo sia il paradosso tra il sistema dello Stato-Nazione che abbiamo oggi, e la lotta per i diritti umani, per le convenzioni internazionali, per i diritti dei minori… Tutte queste convenzioni e dichiarazioni sono sottoscritte in molti dei Paesi europei. Il paradosso ha in qualche modo le radici nella ragione stessa del sistema dello Stato-Nazione, come fosse un club di cui si è membri e che permette l’accesso a questo e quello. Allo stesso tempo, abbiamo persone che fuggono dalla guerra, dall’oppressione politica, o per altre ragioni. Quindi come fare? Come poter conciliare le due tensioni? Assistiamo quanto l’Unione Europea non sia capace di superare questo paradosso. Da un lato promette ai cittadini di proteggere i confini, di non volere che arrivino tutti, di avere il controllo delle sue frontiere, ma la verità è che non lo hanno, le persone continuano ad attraversare i confini. Hai menzionato la pandemia, osserviamo che una conseguenza della pandemia è di aver accresciuto il divario tra ricchi e poveri, tra il Sud e il Nord del mondo. All’inizio della pandemia il numero degli attraversamenti irregolari dei confini era diminuito, ora è rientrato: tra il Messico e gli Stati Uniti, così come l’esempio di poche settimane fa di migliaia di persone che hanno attraversato il confine tra il Marocco e la Spagna in quell’enclave spagnola. Questo è il paradosso.
Tornando al libro, quel passaggio affronta le restrizioni alla mobilità, e queste restrizioni in termini non solo di mobilità fisica ma anche di mobilità sociale. È molto importante pensare come siano correlate l’una all’altra: attraverso la mobilità fisica si è autorizzati ad attraversare il confine da un Paese ad un altro, e così poter migliorare la propria situazione sociale, tendere a un lavoro migliore, a un migliore salario, a una migliore istruzione per i propri figli, e così via. Sono quindi interconnessi: il diritto a emigrare, a spostarsi è strettamente legato al diritto a una vita sicura e all’istruzione.

MC: Ricordo un tuo intervento sul tempo rubato.

SK: Un aspetto dei confini e delle pratiche di confine si concretizza attraverso il tempo e la temporalità. Ritardare le persone, fare aspettare le persone immigrate al confine, durante la richiesta di Protezione Internazionale, il dislocarle nei centri di detenzione, fino alla deportazione, sono modi per rallentare e dilatare, per tenere le persone in uno stato di prolungata attesa. Quando parlo di attesa mi riferisco ad anni, alcune volte decenni, come sapete, ci sono casi di persone che devono aspettare magari quindici anni. Una conseguenza del confinamento temporale è che le persone perdono quel tempo. Cosa succede al tempo che le persone hanno impiegato a imparare una lingua, a lavorare, a pagare le tasse, a costruire relazioni personali in un Paese, quando improvvisamente vengono deportate? Quel tempo è loro rubato, questo è brevemente la spiegazione di cosa intendessi con quella frase.

MC: Pensi ci possa essere la possibilità di trovare maggiori comunanze oggi, dopo l’esperienza di mancanza di relazioni sociali e di qualità del tempo, ora che tante altre persone ne hanno fatto esperienza quest’anno? Pensi ci possa essere maggiore empatia con il tempo rubato di altre persone, cittadini che vivono nello stesso Paese?

SK: Da un lato, forse sì. Quando parliamo di crisi, quando parliamo dei drammi che molti di noi hanno affrontato dall’esplodere della pandemia, raccontiamo qualcosa che era invece quotidianità per altre persone. Quindi da un lato, teoricamente, sì, dovremmo avendo condiviso sotto certi aspetti una simile esperienza… Ma dall’altro lato no, osserviamo un crescente razzismo, maggiori discriminazioni, vediamo le deportazioni avvenire più frequentemente, sentiamo le persone dire “Gli immigrati vengono a rubare il lavoro”, “Chi è questa gente”. E ancora, quel nesso virus-migrazione per cui la migrazione è il canale con cui è arrivato il virus. La ragione di alimentare la paura, la xenofobia e il razzismo si ricollega alla crisi pandemica.

MC: Altri argomenti discussi diffusamente nel libro sono i concetti di “Refugeeness, status di profugo” e “Homelessness, esilio definitivo”. I centri di accoglienza e di detenzione posizionano le persone non desiderate all’esterno della società, confinandole come “rifugiate”. Che impatto hanno i confini sulle persone? Quali effetti producono?

SK: Gli effetti che producono i confini, come dicevo, sono di operare una selezione tra le persone che possono attraversarli e quelle che non lo possono fare. Per riuscire ad attraversare i confini bisogna necessariamente corrispondere a quelle aspettative, ruoli e caselline, che – lo sapete – lo rendono possibile. E una tra questi è di esibire lo status di profugo, che diviene quindi un tipo di situazione, un modo di essere, che molte persone devono rappresentare. Ed è legato, come scrivo nel libro, all’enfatizzarne la tristezza e il dolore perché lo status di rifugiato viene associato alla sofferenza e alla mancanza di libero arbitrio, tutti questi elementi insieme. Quindi per provare di essere un vero rifugiato devi accentuarli ancora di più per coloro che devono decidere per te.
Questo circa lo status di profugo, hai poi parlato di casa ed esilio definitivo nella seconda parte della tua domanda. Scelgo Homelessness, esilio definitivo, come metafora per discutere un futuro differente: “Come immaginare un mondo diverso?”. Per me, è molto importante avere una visione, con questo non dico che possiamo rimuovere i confini oggi. E anche se ci riuscissimo proprio oggi, probabilmente molti problemi non scomparirebbero, la povertà e le divisioni di classe rimarrebbero. Rimuovere i confini dovrebbe andare di pari passo con scelte politiche. Nel lungo periodo, è però cruciale avere una visione politica che ci permetta di immaginare una forma di vita diversa. Come dicevo, il sistema dello Stato-Nazione è stato costruito da persone che non eravamo noi non molto tempo fa, siamo quindi liberi di disfarlo, rifarlo, farlo differentemente. Homelessness è un’idea che permette di rifiutare il sistema dello Stato-Nazione. Non mi riferisco all’essere senza casa: tutti abbiamo bisogno di una casa, un riparo, un posto dove vivere, se lo scegliamo. Quando parlo di casa mi riferisco all’idea di appartenenza, al fatto che tutti siamo – siamo italiani, norvegesi, o iraniani – e di conseguenza gli altri non sono, non appartengono allo stesso gruppo. È un modo per superare questa categorizzazione, per andare oltre il segnare confini tra noi e gli altri. Rappresenta in un certo senso un’apertura, una chiamata per allargare il significato di casa e appartenenza, una chiamata per aprire porte, cancelli, per viaggiare, per dialogare. Il Mar Mediterraneo per esempio non era così anni fa, non è sempre stato un confine. Il Mar Mediterraneo era un canale di comunicazione, di commercio e di viaggi, le persone attraversavano in mare da Sud a Nord e da Nord a Sud per lavorare, studiare, conoscere il mondo. Oggi è un confine, un confine militarizzato e non c’è possibilità di andare e venire, non c’è mobilità ma solo migrazione e in particolare migrazione irregolare. Quando le persone che attraversano un confine non possono tornare indietro, non c’è circolazione delle persone ma qualcosa d’altro. Questo è l’esilio definitivo per me, è la necessità di pensare oltre il sistema dello Stato-Nazione.

MC: Vorremmo citare un’altra frase dal libro, che tocca proprio questo tema. Cosa intendi quando affermi che “Solo quando la patria sarà sparita e l’umanità smetterà di essere territoriale avremo la possibilità di diventare davvero umani?”

SK: Credo sia molto collegato, altre persone lo hanno sostenuto, incluso Giorgio Agamben e molti altri. La mia critica al sistema dello Stato-Nazione è allo stesso tempo una critica al capitalismo, al razzismo, sono tutti elementi strettamente correlati. È una critica a come abbiamo trattato la natura, la terra. La struttura dell’ambiente e della natura attraverso il capitalismo fossile è collegata al sistema dello Stato-Nazione, al capitalismo razziale, sono interconnessi. Qual è il nostro futuro? Qual è il futuro dei nostri figli, delle prossime generazioni che ci succederanno se non cambiamo questo sistema? E, di nuovo, non basta cambiare il sistema dello Stato-Nazione ma anche il modo in cui produciamo e consumiamo, la visione del lavoro e delle risorse.
Mi riferisco poi a quanto accade in questi giorni, in questi anni circa la criminalizzazione dell’accoglienza, la criminalizzazione della solidarietà, che penso sia molto pericoloso. La scelta di quale tipo di civiltà, di cultura e società vogliamo essere è determinante. Quando salvare un uomo che sta affogando, dare da mangiare a una donna affamata, prendersi cura di una persona malata è criminalizzato, cosa ci resta? Cosa resta di una cultura, di una civiltà quando la solidarietà è criminalizzata, quando l’accoglienza è criminalizzata? Quando la gentilezza e la compassione sono criminalizzate? Cosa succederà ai nostri figli e alle prossime generazioni quando questo accade nella nostra civiltà e nella nostra cultura? Questi elementi sono profondamente legati tra loro. La speranza non è molta se continuiamo ad agire in questo modo, a confinare le persone, a distruggere la natura, a criminalizzare la solidarietà come stiamo facendo fin qui.

MC: Avremmo moltissime altre domande, e il tuo libro è davvero un libro che tutti dovrebbero leggere, è interessante e toccante insieme. Mi riferisco a Io sono confine, la tua produzione è naturalmente ampia, e non solo di libri. Ho visto recentemente un tuo video che combina forme d’arte, probabilmente un esperimento per provare a raggiungere più persone anche in altri modi. Siamo in ascolto se avessi voglia di raccontarci qualcosa in più del tuo lavoro recente

SK: Sto concentrando il mio lavoro su cosa accade dopo la deportazione, quindi non solo il prima e il durante la deportazione, ma anche: “Cosa succede alle persone che vengono deportate dall’Unione Europea?” Molte volte ricercatori e giornalisti non hanno la curiosità di farlo. Sono poi fortemente interessato ai concetti di temporalità e di attesa. Credo che uno dei video fosse WAITING, sull’attesa, fatto con un amico, Dagmawi Yimer, artista etiope-italiano, usando le arti visivi e altre forme per comunicare conoscenza ed esperienza non solo con parole scritte, abbiamo provato a fare del nostro meglio.

MC: Grazie davvero di essere stato con noi, è stato un onore averti ospite.

SK: Grazie molte a voi, è stato un piacere.

MC: Grazie a tutti, se avete piacere a continuare a seguirci visitate il sito del Naga, la pagina Facebook e il canale Youtube, ci vediamo al prossimo numero!

Testo originale dell’intervista (in inglese)

The perception of borders

Video interview with Shahram Khosravi, Professor of Social Anthropology at Stockholm University

Shahram Khosravi is a Professor of Social Anthropology at Stockholm University, and his research interests include anthropology of Iran and the Middle East, migration, human rights, forced displacement. Author of several books – including The Illegal Traveller, an autoethnography of borders – translated in Italian as Io sono confine.

MC: We would like to start our conversation engaging with you on the meaning of borders. To some, 2020 lockdowns crystallized the concept of physical boundaries, especially in many parts of the world unused anymore to restrictions to such fundamental freedoms. What is the meaning of borders?

SK: I think to answer that question we should think about borders not in terms of lines or the wilding states, but rather understanding borders in the form of practices, a series of practices that can happen at the actual phase of the border but also in other places.
Borders are practices which not only exclude people but also include people in very specific ways. We can talk about the differential inclusion people have in correlation with race and racism. I want to emphasize this element, it’s very central.
Borders did not come from God or nature, we created them. And we created them not long ago. But today, we take them so for granted, for given that we cannot imagine another world without them. Borders have penetrated not only our everyday life by organizing mobility and our sense of belonging, but also our imagination. Borders and the impact of borders on our imagination is relatively new and it is very much significant to analyze it further.
When I think about borders today, I’m referring both to visible borders – the very ones we see when we cross two countries, which are concrete, tangible and where we can be stopped, controlled, maybe rejected and deported – and to invisible borders. When I talk about invisible borders I’m thinking about those practices of racial discrimination and exclusion that happens everywhere, in the middle of Milan as at the actual border of Italy.
Borders make a selection of bodies, not everyone is their target: this is probably the reason why my book was translated as Io sono confine, I am the border in Italian.

MC: Many immigrants know very well extended lockdowns. While they pursue international protection or live undocumented, they experience years of temporal and spatial exclusion from society. We would like to quote from The Illegal Traveller: “Undocumented immigrants lack not only the right to healthcare, education, police protection and work, but also the right to social relations and freedom of movement in public spaces.” Learning from this year, can the European Union implement effective ways of protecting fundamental rights of all? Can we – as people in the EU – find more communalities today to push for a EU that recognize these fundamental rights for all?

SK: I think this is the paradox between the nation state system that we have in the EU today and the struggle for human rights, for refugee conventions, for children’s rights…
The nation state system has its own very reason in behaving like a club, where its members have access to certain rights, to do what and to be where they are entitled to.
However, there are millions of people who are escaping from wars and political oppressions or for other reasons.

Unfortunately, the EU is not being successful in dealing with this paradox.
The EU promises its citizens to protect and have control of the borders but the truth is that people keeps crossing them. Since the pandemic breakout we observe a growing gap between rich and poor, between the global South and the global North.
The number of the border’s irregular migration declined at the beginning of the pandemic but it is back now. Examples are Mexico and the USA, but also the thousands of people who crossed the border from Morocco to Spain a few weeks ago in that Spanish enclave.
Going back to the book, that passage focuses on the restriction of mobility that often migrants suffer from, in terms of physical mobility and social mobility. It is very important to think how they are strictly related to each other, as through physical mobility people are entitled to cross the border from one country to another, thus improving their social situation, get a better job, earn a better salary, offer a better education to their children… The right to mobility is strongly related to the right to safety and to a good education

MC: I heard you speaking about stealing time

SK: One aspect of borders and bordering practices is through time and temporality.
The aim of delaying people (e.g. delaying migrants at the border and during the asylum process, putting them in detention centers, deporting them) is to keep them in prolonged waiting time.
When I’m talking about waiting I’m talking about many years, sometimes decades, as you know people can wait for 15 years of their life. As a consequence of temporal bordering, people get rid of time.
What happens to all the time people have spent to learn a language, to work, to pay taxes, to build relationships in a country, when suddenly they are deported? That time is stolen from them

MC: Do you think there may be a chance to find more communalities after the outbreak of the pandemic, regarding the lack of social relation and quality time we all experience? Do you think there may be more empathy within the stealing time of others?

SK: In crises and in particular in the disasters that many of us face since the outbreak of the pandemic, we experience the everyday life of others.
So, on the one hand, theoretically yes, we should find more communalities today.
But on the other hand, we observe an increase in racism and discrimination, the deportation becoming even more intense.
The reason for stressing the link between virus and migration, to which migration became the channel for the virus to infiltrate, produces fear, xenophobia and racism, relating to the pandemic crisis

MC: Other topics that you discuss extensively in your book are “refugeeness” and “homelessness”. Refugee camps and detention centers place the undesired people outside of society, reducing human beings to be “asylum seekers”. What is the impact of borders on people?

SK: Borders make a selection of bodies: some people can cross borders, some others cannot. To  succeed in crossing borders and in obtaining a status through the asylum process, people have to live up to those expectations, rules and boxes that make it possible.
Refugeness is the kind of situation or mood of being that many people have to perform. It is about performing misery and suffering as refugeness is commonly associated with suffering and lack of agency, all these things together. To prove to be a real refuge people have to show it even more to those who decide about that.
Homelessness was also part of your question.
I use the word Homelessness as a metaphor to discuss a different future, to imagine a different world. I’m not saying we can remove borders today, and even if we could, many problems will probably stand, as poverty and class division will be there. To remove borders should be combined with political choices. In the longer term though, it is important for us to have political visions that can give us a picture of a different form of life.
Homelessness is an idea of rejecting the nation state system, thatwas constructed not long ago by human beings but us. We are therefore free to unmake it, remake it, or make it differently. Everybody needs a house, a shelter, somewhere to live, if they chose to. When I say home I precisely refer to the idea of belonging: we are here – as Italians, Norwegians, or Iranians – and those others are not, they do not belong. It is a way to go beyond this categorization and beyond drawing boundaries between us and others. Homelessness is a call for open doors, open gates, for coming and going, for communication.
As the Mediterranean Sea has not always been a militarized border. The Mediterranean Sea was a channel for communication, for trade, for coming and going. People used to cross the sea from South to North and from North to South to work, to study, to travel. Today, there is no coming and going, there is no mobility but irregular migration. And when there is no going back as people crosses borders, there is no mobility circulation but something else. Homelessness for me represents the need of thinking beyond the nation state system

MC: We would like to quote another sentence from your book, which is really into the topic. What do you mean by saying: “Only when home has vanished and humanity is no longer territorialized, only then, there will be a chance for humanity?”

SK: Many people have been saying this – including Giorgio Agamben and others.
My critic of the nation state system is at the same time a critic of capitalism, of racism, as they are related to each other. It is a critic of how we have treated the nature, the earth. The structure of the environment and nature through fossil capitalism is closely related to the nation state system and to racial capitalism.
So, what is the future of us? What is the future of our children, of the next generation to come if we don’t change this system? And again, it doesn’t mean to change the nation state system alone but the way we produce and consume together with the vision of labor and resources.
I am also referring to the criminalization of hospitality and solidarity that is dangerously happening these days, these years. It is very dangerous in terms of what kind of civilization, culture and society we are when saving a man from drawing, giving food to a woman who is hungry, taking care of a sick person is criminalized? What is left of a culture, what is left of a civilization if solidarity is criminalized, if hospitality is criminalized? When kindness and compassion is criminalized? What happens to our children, what happens to the next generation when this is happening in our civilization and culture? All these elements are profoundly related to each other. The chance for humanity is not so much if we continue to behave this way, to border people, to destroy nature, to criminalize solidarity as we have been doing so far.

MC: We would have so many questions for you… Your book should be read by everyone, it is interesting and also moving. I’m referring to The Illegal Traveller, you have of course written several other books, and not only books. I have recently watched a video of you which mixes arts together, probably as an experiment to reach more people in different ways. We are open, if you like to tell us a little more about your recent work

SK: I’m looking at what happens after deportation, so not only before and during deportation, but focusing on the people who are deported from Europe. What happens to them? Many times researchers and journalists are not curious to do that. I’m also very much interested in temporality and waiting. I think the video you are referring to is the one I made with a friend, Dagmawi Yimer, an Italian Ethiopian artist, called WAITING. We used the visual and other art forms to communicate the knowledge and experience not only in written words, we tried to do our best

MC: Thank you very much again, it has been an honor to have you with us

SK: Thank you very much, it has been a pleasure

MC: Thank you all, if you like to keep following us please visit the Naga website, our Facebook page and Youtube Channel. We will see in the next release

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