Michele Rossi, direttore del Ciac (Centro Immigrazione Asilo e cooperazione di Parma e provincia)
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Ripensare all’accoglienza.
Un sistema da cambiare profondamente
Emilia Bitossi: Ciao Michele siamo lieti di averti con noi. Ti chiederei di presentarti, di raccontarci cos’è il Ciac di Parma, e poi entriamo nel merito delle domande.
Michele Rossi: grazie mille a te Emilia e a tutto il Naga per il lavoro che fate e che state facendo e anche per la newsletter che seguiamo con grande interesse, insieme al recente report che tra l’altro mi è piaciuto davvero tanto e vi faccio i complimenti anche per questo. Cos’è il Ciac? Il Ciac è il Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione di Parma e provincia, è uno storico ente di tutela dei diritti della popolazione migrante. L’associazione ha una particolarità perché nasce dalla volontà sia di italiani sia di stranieri di costruire quelle che sono le forme della tutela e della protezione nel nostro paese. Tra le sue peculiarità posso ricordare che, ad esempio, è il luogo dove si è creata la primissima esperienza di accoglienza integrata e diffusa a metà degli anni novanta, o dove abbiamo introdotto nuove figure come il tutor territoriale dell’integrazione o fatto protocolli con l’asl locale per la presa in carico delle vittime di tortura. Una realtà che prova a rendere esigibili quelli che sono i diritti spesso solo formali, e talvolta nemmeno, della popolazione straniera e insieme, questo è il nostro tentativo, alla popolazione straniera stessa. Io di lavoro faccio il direttore del Ciac, sono dottorato in psicologia sociale, ho sia nel mio percorso di lavoro e di studio sempre seguito il tema delle migrazioni, collaboro con alcune realtà come Amnesty International ad esempio per un progetto di ricerca e azione..
EB: Grazie Michele della presentazione, entrerei subito nel vivo delle domande. La prima domanda riguarda il doppio binario messo in atto dalla Ministra Lamorgese, quindi sui SAI doppio binario, richiedenti asilo e beneficiari di protezione. Come sta funzionando nella tua esperienza? Noi abbiamo la nostra, ma sicuramente la tua è molto ampia.
MR: sta funzionando malissimo. È una di quelle contraddizioni che, se dovesse rimanere aperta, ha il potenziale di cancellare quanto di buono era stato costruito nelle sperimentazioni dell’accoglienza integrata e diffusa che si sono sviluppate in Italia a partire dalla metà degli anni novanta. Mi soffermo prima sulla distinzione fra richiedenti e titolari e poi su SAI e CAS. Nel SAI, ai richiedenti asilo in virtù del loro status giuridico, nei fatti, è negata la progettazione individualizzata, negando così quella attenzione alla persona che costruisce l’integrazione fin da subito, che abbiamo visto ottenere i risultati migliori in termini di tutela, di integrazione e anche di coesione sociale. Il fatto di avere delle persone che non possono accedere per statuto giuridico a determinati servizi e quindi indipendentemente dai loro bisogni, dalle loro competenze, cambia tantissimo anche il tipo di relazione che queste sviluppano sul territorio. Se c’era una cosa buona dello SPRAR era che ribaltava un paradosso, quello che nel momento di massimo bisogno della persona c’era il minino della risposta. Quindi la persona poteva iniziare fin da subito a costruire la propria stabilità, la propria autonomia e questo cominciare fin da subito significava anche maturare un certo tipo di radicamento nel territorio. Non essere sospesi come presenze indesiderate e sgradite, sospese anche nel tempo, di un tempo che non sappiamo mai quando arriva, dal quale poi potranno forse accedere ad altri servizi…Tutto questo ha un’impronta proprio sulla qualità delle relazioni e sulla qualità dell’investimento che le persone riescono a produrre in un momento molto complesso come quello della fase di richiesta asilo. Da questo punto di vista io direi che ha una contraddizione che è in grado di far fibrillare il sistema e ne nega le premesse concettuali, pratiche, operative e ne nega anche i risultati migliori che ha saputo ottenere. Rispetto al doppio binario CAS e SPRAR è assolutamente ingiustificabile che permanga nel nostro paese un doppio binario, uno dei quali basato su un paradigma emergenziale che fa di pratiche essenzialmente di controllo il paradigma di accoglienza (vorrei sottolineare che parlare di accoglienza, quando i servizi sono limitati “all’albergaggio”, è veramente troppo). Dall’altro lato un sistema comunque per pochi, cui i Comuni accedono volontariamente, e questa è un’altra grande contraddizione del doppio sistema. È un sistema ordinario ma non è un sistema effettivamente pubblico e il fatto che i Comuni possano decidere sulla base di valutazioni politiche se partecipare o meno a un sistema pubblico di garanzia e di tutela dei diritti francamente è un’anomalia che da anni chiediamo, come Ciac, come Rete Europa Asilo, che venga risolta. Non c’è la volontà politica di risolverla e questo lascia un grande spazio al proliferare di un sistema emergenziale che appunto è retto da un altro paradigma, non l’autonomia, non il rapporto con i territori ma una sorta di controllo a tempo dei richiedenti asilo nel nostro paese che getta delle ombre, a mio avviso, molto inquietanti su poi quello che è il proseguo del percorso delle persone, proprio perché distingue anche tra quanti sono i servizi realmente esigibili e quanti no.
EB: grazie, di domande ne avrei tantissime…Mi stavo chiedendo, per esempio, come avviene a Parma l’inserimento dei richiedenti asilo nei SAI?
MR: una delle strategie che ci siamo dati non è solo per i richiedenti asilo ma anche per quelle persone che erano titolari di un permesso che non permetteva più loro, prima della recentissima riforma, di rientrare nel sistema pubblico. Abbiamo provato con l’aiuto dell’associazionismo, del volontariato locale, facendo noi uno sforzo, a costruire dei luoghi di accoglienza che non avessero barriere d’accesso e che permettessero a tutti di avere un percorso di accoglienza ma anche di beneficiare di servizi. Chiaramente assumendoci noi la responsabilità attraverso diverse progettualità, diversi interventi, di garantire a tutti le medesime condizioni indipendentemente dal loro status giuridico proprio per provare, è questo il tentativo che stiamo facendo in questi anni, a mantenere quegli aspetti che secondo noi sono qualificanti dell’accoglienza integrata e diffusa, quindi una progettualità individualizzata, la possibilità di modulare servizi sulla base di bisogni, competenze, necessità e predilezioni specifici, purtroppo assumendo che non possiamo farlo più dentro il sistema pubblico come sarebbe stato giusto anche per la tutela delle stesse persone. Assumerci noi la responsabilità di mutuare il modello nel quale crediamo attraverso altre forme di sostenibilità, di finanziamento.
EB: altre forme di finanziamento vuol dire finanziamento privato? Avete anche dei finanziamenti pubblici?
MR: no, non abbiamo finanziamenti pubblici.
EB: per cercare di creare un’accoglienza che diciamo sia a latere rispetto a quella di sistema, istituzionale. Quella istituzionale funziona come a Milano, immagino? Volevo capire se a Parma ci fosse un sistema più snello a livello istituzionale. Quando arriva un richiedente asilo da noi è ben difficile che entri in un SAI perché sembra non esistere una via. Io non ho mai visto richiedenti asilo che a Milano venissero inseriti in un SAI, a meno che non ci fosse una segnalazione da parte di un’associazione, oppure casi che escono da un CAS e vengono inseriti direttamente nel SAI, con ancora in corso l’iter burocratico e senza aver ancora incontrato la commissione che valuta la richiesta di asilo, ma è lo stesso ente gestore che li mette nello stesso “suo” SAI. Non esiste una strada istituzionale, dalla Questura non li mandano direttamente nei SAI, è molto difficile che avvenga. Questa è una cosa che immagino anche a Parma funziona così?
MR: da questo punto di vista forse la nostra situazione, che vede una città comunque con dimensioni molto più piccole di Milano, è diversa. Abbiamo una rete molto fitta di sportelli che si occupano di immigrazione, asilo e cittadinanza. Cerchiamo settimanalmente, insieme a una rete di associazioni locali, in qualche modo di seguire il bisogno di accoglienza territoriale e di orientarlo verso il pubblico con le risorse che abbiamo disponibili. Occorre comunque sapere che Parma è una città fondamentalmente di approdo o di transito, però non di primissimo approdo, perché è al centro della pianura Padana, ed è abbastanza collegata. Noi ci siamo fatti carico di riuscire a mettere in rete tutti i vari presidi sociali, giuridici, sanitari che possono intercettare questa popolazione per dare una risposta tempestiva. Questo sistema che anni fa avevamo anche protocollato, che chiamiamo di “pronta accoglienza”abbiamo visto che è molto importante. Più riusciamo a intercettare una persona presto e sottrarla anche alla marginalità, più nel percorso successivo guadagna mesi e raggiunge prima l’autonomia, questo è dimostrato da dati di studio. Quindi sta anche meno in accoglienza.
EB: a questo proposito, voi lavorate anche con il Comune di Parma?
MR: lavoriamo con tutti i comuni della provincia.
EB: quindi fate un servizio per il Comune?
MR: sì, in questo caso gli sportelli sono dei comuni della provincia, non del comune capoluogo. Abbiamo uno sportello anche all’interno del Progetto SAI del Comune di Parma. Però la rete, quella più diffusa, è proprio sulla provincia. C’è uno sportello in ogni paese.
EB: questa è una cosa ottima per esempio. Ci sono altri due punti che volevo toccare, il punto relativo ai fragili, a quelle persone che hanno acuzie, problematiche di fragilità particolare, di cui è piena la città, da noi per lo meno. Queste persone dovrebbero essere accolte in SAI ad hoc con operatori formati. I SAI per i fragili a Milano sono un numero ridicolo. Questo comporta che a Milano e provincia vengono accolti negli stessi SAI dove sono anche le persone che non hanno bisogno di una particolare cura e accadimento, creando però un grande imbarazzo sia negli operatori, che magari non sono assolutamente preparati ad accogliere questi ospiti, sia anche negli altri ospiti. Com’è la situazione a Parma?
MR: questo è un tema molto grande, io ti posso dire che in realtà abbiamo anche un decreto del Ministero della Salute del 3 aprile del 2017 che stabilisce che ogni ASL dovrebbe dotarsi di un’équipe multidisciplinare, perché la parte di accoglienza in questi casi che tu citi non è l’unica, c’è anche un po’ il rischio a pensare che progetti specifici creino anche delle situazioni ghettizzate e stigmatizzate. La strategia che noi stiamo cercando di perseguire è quella di un pieno coinvolgimento delle strutture del “pubblico” e di una riflessione sui ruoli organizzativi che presiedono non solo la presa in carico delle acuzie, ma anche la progettazione alla prevenzione. Interventi che un tempo si chiamavano di integrazione socio-sanitaria ma che sono molto importanti quando ti rivolgi a delle persone che hanno delle fragilità o delle vulnerabilità importanti. Anche perché in questo senso bisogna pensare a delle misure che abbiano comunque una certa prospettiva temporale e che devono far combaciare più cose, l’intervento socio-sanitario, l’intervento sociale di accoglienza ma anche, importantissima, la parte relazionale e socio-relazionale. Diciamo che stiamo provando a lavorare in questo senso, con tante difficoltà ovviamente, in modo da costruire anche insieme alla ASL, con la quale abbiamo un protocollo proprio su questo, luoghi di coordinamento tra servizi ma anche servizi che permettano di agire su più livelli senza creare delle sacche esterne. Anche qui contano le dimensioni, però ti posso dire che noi abbiamo un “progetto per persone con disagio mentale”. Abbiamo provato a impostarlo non creando delle situazioni di accoglienza“a parte”, ma cercando sempre di lavorare in un’ottica basagliana, di condizioni di autonomia, con al centro proprio la costruzione della rete sociale, perché sappiamo che in questi casi, oltre agli interventi sanitari, medici o farmacologici, il fattore che poi costruisce una possibilità diversa nel futuro è proprio questo. Su questo approccio sarebbe bene ragionare, perché occorre rivedere un po’ tutto l’impianto, dai luoghi di accoglienza, i dispositivi di presa in carico, a quali sono i fattori, cito tra i tanti, la tortura, che impattano su queste situazioni. La tortura durante il viaggio. Il fatto che, finché la migrazione è in mano a chi traffica uomini, abbiamo un dato di violenza strutturale che poi ricade sui territori, perché sono migrazioni forzatamente illegali. Comunque persone che devono affrontare situazioni di disagio, di ricattabilità, per il debito migratorio, soccombono anche a quella pressione psicologica che la loro condizione determina. Riuscire a ragionare con loro, insieme a loro, insieme ai servizi, di questi nuovi bisogni mi sembra importantissimo per uscire anche da quello stallo che ha caratterizzato tutti questi anni, che appena c’è una persona che sta male viene rimbalzata: “tocca a me, tocca a te perché è un rifugiato, tocca a te perché ha un problema di salute, no perché non ha la residenza e io Comune non intervengo”, scatta un corto circuito che ha creato un livello di sofferenza sui territori davvero enorme e che crediamo debba essere messo in cima all’agenda, come dicevi tu. Oggi misuriamo la miopia e gli effetti di questa sciagurata politica dello scarica barili.
EB: sì, è veramente uno dei tasti secondo me più dolenti. Abbiamo diversi casi che stiamo seguendo ed effettivamente questo taglio che state dando voi, “basagliano”, come dici tu, è molto giusto. Non creare una struttura ad hoc vuol dire che la struttura che accoglie gli ospiti, qualunque tipo di ospite essa accolga, deve avere comunque delle persone al suo interno che siano formate in modo che non si crei disagio negli operatori. Poter accogliere sia la persona che ha subito meno conseguenze dai traumi sia invece le persone che hanno subito maggiori conseguenze e che quindi devono essere seguite anche a parte.
MR: soprattutto devono esserci dei luoghi di coordinamento tra i diversi servizi perché altrimenti senza quello abbiamo sempre delle persone che non vengono ascoltate, che hanno un bisogno che deve essere affrontato.
EB: Un altro dei punti deboli è quello dell’uscita dal sistema di accoglienza. A un certo punto escono perché sono scaduti i termini, perché non si può tenerli di più… e quello che abbiamo riscontrato, come avrai visto anche dal nostro report, è la difficoltà degli operatori a farli uscire con quantomeno un’abitazione dove andare a vivere. Il lavoro magari lo trovano, quantomeno a Milano è più facile. Ma il grosso problema è quello dell’abitare. Non so per voi, ma per noi è enorme.
MR: sì, assolutamente. Anche questo è un altro punto importante. Prima parlavamo di un’agenda per gli anni futuri che in un qualche modo faccia anche i conti con quello che non è stato affrontato negli anni passati. In questa agenda c’è sicuramente il rapporto con i mercati segmentati dell’alloggio e anche del lavoro. Questo necessita di politiche più generali, perché evidentemente una persona che esce dall’accoglienza anche quando ha ricostruito un percorso biografico importante, quando anche magari è nelle condizioni di avere un’autonomia socio economica grazie al lavoro, si scontra con il razzismo sistemico del mercato alloggiativo.
EB: è il collo di bottiglia che si stringe, si blocca tutto lì.
MR: si blocca tutto lì e molto spesso fa precipitare anche delle situazioni di grande successo dal punto di vista dell’integrazione non solo socio economica ma anche relazionale, culturale nei contesti di accoglienza.
EB: rischia di andare in fumo un lavoro di due anni.
MR: talvolta anche di più magari. Cosa stiamo facendo in questo senso: stiamo ragionando su delle forme che noi chiamiamo community based protection con delle forme di attivazione comunitaria, anche in questo caso, che mettono in campo il social housing. Abbiamo per esempio un progetto storico che si chiama Tandem che vuole intervenire sul precariato abitativo che è anche, ad esempio, degli studenti o dei giovani lavoratori autoctoni, non solo stranieri, per provare in un qualche modo a rivedere le forme dell’abitare e dello stare insieme e non dover subire in continuazione la legge del mercato alloggiativo immobiliare che, nei fatti, abbiamo visto essere inaffrontabile anche in una città come la nostra che, ben che piccola, è una città universitaria dove quindi gli affitti hanno dei costi, talvolta, vista la precarietà dei rapporti di lavoro, che non sono sostenibili. Stiamo anche provando gradualmente in questi anni a costruire un vero e proprio sistema di transizione all’uscita dei progetti di accoglienza, caratterizzato da quegli aspetti che dicevamo, casa-lavoro-relazioni sociali, perché servono tutte e tre, non basta talvolta neanche l’affitto e il luogo di lavoro. Su queste tre dimensioni per costruire qualche forma di contrasto mutualistico a una precarietà esistenziale che appunto il mercato precarizza ulteriormente.