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Il pensiero – Quello che non si vuole vedere in città

Foto: Leticia e Marco, Ri-scatti Onlus, in mostra “Per me si va tra la gente perduta. Il carcere fotografato dai detenuti e dalla polizia penitenziaria”

Quello che non si vuole vedere in città

Per le carceri italiane il bilancio del 2022 è tragico, mai tanti suicidi come nei primi nove mesi dell’anno: 67 persone si sono tolte la vita. A morire sono per lo più giovani dietro le sbarre per reati minori o in condizioni di fragilità psicofisica. Cittadini stranieri in gran numero. Persone, il cui percorso migratorio è fallito. Persone che fanno fatica a misurarsi con il loro fallimento. La struttura carceraria, il “Sistema”, nulla ha a che vedere con quello che la nostra Costituzione vorrebbe che sia.

“La distanza ideale e fisica con la comunità, la mancanza di rapporti con le Associazioni e con le istituzioni che operano nel territorio – delle quali è chiara l’indifferenza se non il fastidio – viene percepita come frustrazione di ogni possibile prospettiva di inclusione. Eppure, il coinvolgimento del territorio nell’attuazione di diritti sarebbe il modo migliore per radicarli, perché vengano assimilati anche sul piano culturale e del consenso sociale.”

Queste parole descrivono bene la situazione in cui si trovano molti detenuti, scritte da attivisti di Nessuno tocchi Caino, Organizzazione Non Governativa per l’abolizione della pena di morte nel mondo fondata a Bruxelles nel 1993. Parole che potremmo applicare a tutti coloro che attendono che i loro diritti vengano rispettati e che invece, sempre più spesso, sono disattesi.

Come Naga, lo vediamo quotidianamente nella nostra attività. Chi intende presentare domanda di asilo politico a Milano deve passare notti intere, per settimane, fuori della questura, per riuscire a entrarvi. Chi ha diritto ad accedere al sistema di accoglienza e ne ha fatto richiesta, vive per mesi per strada – se va bene, durante alcuni mesi invernali, trova posto in dormitori sovraffollati, ingresso alle 8 di sera e uscita alle 8 del mattino. Manca il personale, mancano i soldi, manca la volontà. Vivere raminghi intere giornate alla ricerca di un luogo e un pasto caldo, vivere nell’isolamento e nella rassegnazione, abbandonati alle proprie esistenze sospese, al sovraffollamento strutturale, alla promiscuità, alla mancanza di intimità. L’assonanza tra chi vive in stato detentivo e i tanti migranti approdati a Milano, lasciati a sé stessi, è impressionante. La città non accoglie, respinge. Chi non riesce a sopravvivere viene “espulso”. Recluso in un CPR o in un carcere, o lasciato andare alla deriva, senza possibilità di remissione.

Racconta nella nostra videointervista Paola Guerzoni, psicologa del carcere di San Vittore, “Una delle caratteristiche della nostra popolazione è l’assoluta povertà: San Vittore è in questo momento il collettore di tutto il disagio psicologico, sociale, del fallimento migratorio: la porta è sempre aperta per tutto ciò che non si vuole vedere in città”.

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