Paola Guerzoni, psicologa del carcere di San Vittore di Milano
Il carcere visto da dentro
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Fanny Gerli: Buonasera, Benvenuti e Benvenute a questo nuovo numero di Fuorivista, sono Fanny del Gruppo Carcere del Naga. Il Naga entra in carcere portando dentro il carcere un’attività di sportello sociale e di attenzione quindi a tutti quelli che sono i bisogni e la tutela dei diritti delle persone ristrette all’interno delle carceri milanesi dal punto di vista del detenuto straniero. Abbiamo oggi come ospite Paola Guerzoni, psicologa che opera all’interno del carcere, che salutiamo e ringraziamo. Con lei vorremmo offrire uno spaccato di quello che è il carcere visto da dentro. Passerei quindi la parola a Paola, chiedendole di presentarsi e raccontarci il suo lavoro per poi approfondire il tema.
Paola Guerzoni: Buonasera, lavoro a San Vittore come psicologa e svolgo diverse funzioni all’interno dell’azienda ospedaliera. Il gruppo sanità è diviso in più servizi: facciamo colloqui ai nuovi giunti, a tutti coloro che entrano entro le dodici ore, abbiamo un servizio di sostegno, un servizio che riguarda la parte psichiatrica, le cosiddette celle CARS (Celle A Rischio Suicidario o con patologie di tipo psichiatrico etc.).
FG: Proviamo a spiegare alle persone che del carcere non sanno nulla: tu operi a San Vittore che è una casa circondariale, Il Naga entra inoltre nelle due case di reclusione di Opera e Bollate. Cosa vuol dire essere in una casa circondariale?
PG: Parlo con contezza, avendo lavorato anche nelle case di reclusione: la casa circondariale ha la specificità di accogliere tutte le persone che vengono arrestate, in qualsiasi situazione esse siano. Non solo quelle in attesa di giudizio, ma in qualsiasi condizione psico-fisica o sociale. Chi arriva nella casa di reclusione normalmente ha già fatto un passaggio presso di noi e quindi dal punto di vista emotivo e sanitario è già stato curato e stabilizzato. Nelle case di reclusione si entra dopo aver ricevuto la condanna, quindi già con la possibilità di immaginarsi un futuro e le proprie prospettive.
FG: Circa San Vittore stiamo quindi parlando del primissimo accesso; se volessimo far capire come si svolge la vita delle persone ristrette, come è scandita la giornata di una persona detenuta?
PG: All’arrivo la persona viene immatricolata, vengono prese le impronte, viene accolta dal punto di vista giuridico dalla Polizia Penitenziaria. Immediatamente vengono visitate dal medico in qualsiasi momento del giorno e della notte; subito dopo il medico, incontrano lo psicologo che è presente nelle ore diurne, dalle 8 del mattino alle 20 di sera. Il mandato dello psicologo è valutare il rischio suicidario o autolesivo del detenuto, valutare se sia necessaria una visita di secondo livello di tipo psichiatrico e decidere il tipo di ubicazione – in una delle celle di maggiore osservazione per le persone molto a rischio, piuttosto che nel raggio comune. Il Covid ha poi creato nuove procedure: per esempio l’obbligo per i nuovi entrati di stare nel raggio dell’accoglienza per cinque giorni, tutti insieme. Molti dei nuovi giunti non sono vaccinati, nella visita di ingresso viene fatto il tampone: se positivi vengono portati nel reparto clinico fino a negativizzazione, altrimenti tutti quelli entrati nello stesso giorno vengono portati nella stessa stanza al fine di creare una bolla.
FG: Vi è quindi una prima fase di isolamento in gruppo, in attesa dello smistamento.
PG: Esatto, dopo cinque giorni hanno un periodo in cui passano una situazione di chiusura, per alcune situazioni, senza poter uscire dalla cella, a parte il momento dell’aria, le visite, i colloqui ed eventualmente anche delle attività. Fatto sta che la cella non è aperta. Se non si ravvisano problematiche durante il periodo di osservazione il detenuto passa ai reparti aperti, con celle aperte dalle 8.00 alle 15.00 o dalle 8.00 alle 19.20. Questa cosa, che è anche positiva perché permette maggiore socializzazione, movimento, e permette di usufruire di maggiori spazi rispetto alla ristrettissima camera di pernottamento – come si deve chiamare adesso, non più cella – può diventare invece una situazione critica. In situazioni infatti in cui c’è una barriera linguistica forte, o forte disagio personale, o spesso per la scarsità delle attività e la difficoltà ad accedervi, il fatto di essere in un reparto aperto è eccessivamente sollecitante.
FG: Sollecitante nel senso che…
PG: Nel senso che può provocare situazioni di conflitto, ma anche di disagio personale, perché i detenuti camminano, bisticciano fra di loro, rubano purtroppo. Una delle caratteristiche della nostra popolazione è infatti l’assoluta povertà: San Vittore è in questo momento il collettore di tutto il disagio psicologico, sociale, del fallimento migratorio: la porta è sempre aperta per tutto ciò che non si vuole vedere in città.
FG: Da questo punto di vista, quali sono le maggiori criticità che vedi durante i colloqui? Con un riferimento specifico alla popolazione straniera, visto che noi come Naga siamo orientati verso i cittadini stranieri.
PG Considera che circa il 70 – 80% dei detenuti è di origine straniera; abbiamo dalle 75 alle 82, 83 nazionalità rappresentate, quindi con una babele di lingue, di situazioni, di storie molto complessa. La popolazione più rappresentata proviene dal Maghreb in questo momento, con la novità in questi ultimi pochissimi anni di moltissimi algerini e egiziani; un po’ meno tunisini, molti marocchini. Nella maggioranza dei casi sono persone giovani che entrano in una situazione di forte disagio, perché quasi tutti abusatori di sostanze, soprattutto psicofarmaci. Sia le droghe che gli psicofarmaci sono utilizzati a scopo di oblio, per dimenticare; utilizzano di tutto e di più pur di non aver consapevolezza del fallimento del percorso migratorio o delle condizioni esterne di povertà di vita o di poca speranza. Questo provoca spessissimo delle criticità, anche perché la scelta attuale della psichiatria è quella di non dare i farmaci che vengono ritenuti abuso senza fare un periodo di scalaggio: questo crea spesso una serie di dinamiche, di conflitti, ma anche di astinenza. Il tutto rende il momento dell’adattamento molto difficoltoso… autolesionismo, etero-aggressività. Mentre tendenzialmente i magrebini si tagliano o piangono o hanno quelle che vengono chiamate crisi pantoclastiche, cioè di grande agitazione psico-motoria, gli africani sub-sahariani (facendo sempre delle grandi macrocategorie), spesso avendo disturbi post-traumatici complessi, sfogano la reattività frequentemente contro la Polizia. Anche perché i reati per cui sono in carcere sono tendenzialmente spaccio di marijuana o cocaina, e resistenza a pubblico ufficiale. Anche il percorso migratorio dice tanto, è uno degli elementi che noi valutiamo durante il colloquio d’ingresso. Capire se le persone sono passate per la Libia, se hanno attraversato la rotta balcanica, se sono state incarcerate o torturate, ci dà delle indicazioni importanti.
FG: Rispetto al racconto di questi percorsi, che poi sono i racconti che sentiamo anche come Naga quando entriamo in carcere, l’istituzione come è in grado di rispondere?
PG: Sorrido perché la situazione come ben capisci è complessa, perché a tutto questo si sommano cose molto pratiche: per esempio le persone non hanno riferimenti, non hanno famiglia, non hanno soldi, non hanno l’avvocato e quindi diventa tutto estremamente complicato. Il fatto di non avere i soldi per chiamare i parenti è fonte spesso di profondissimo disagio. L’istituzione risponde cercando di trovare i soldi, con il prete che mette 5 euro per poter telefonare; cercando di capire come sta andando la situazione processuale, facendo molti colloqui di sostegno; cercando di impostare, insieme agli psichiatri, delle terapie che siano accettate dal detenuto. Spesso i magrebini preferiscono non prendere i farmaci che sono prescritti loro, non solo perché non sono i loro farmaci d’abuso, ma perché non li lasciano sentire sé stessi. Resta l’angoscia senza sentirsi in sé. Cercando di metterli in situazioni il più possibile tranquille, piuttosto che sollecitanti, di affiancare un giovane a qualcuno più adulto, se ci sono degli amici tenerli insieme. Anche tutta la parte dell’ubicazione si cerca di tenerla in considerazione.
FG: Quello che ci stai raccontando rispecchia esattamente le richieste che i detenuti ci fanno quando entriamo in carcere: il contatto con le famiglie, il capire rispetto all’avvocato, il cercare di mantenere le relazioni – quando ci sono. Al di là di questo, ci sono delle difficoltà legate al proprio percorso: pensiamo semplicemente al fatto che quasi nessuno degli stranieri riesce ad accedere ai domiciliari perché non ha la possibilità di fare questo. Dal punto di vista psicologico, ci hai accennato prima alle reazioni alle terapie, ai colloqui…si riesce a dare un effettivo supporto? Come si gestiscono queste situazioni? Chi se ne occupa?
PG: Noi psicologi siamo sette, a turno per 365 giorni, tutto il giorno, con 950 detenuti. Ciascuno di noi ha i turni per i nuovi giunti, i turni di sostegno, più i turni in equipe per valutare le situazioni dei detenuti più delicati; ciascuno di noi ha anche dei reparti e risponde delle persone alloggiate in tale reparto. Sono numeri altissimi, anche perché alcuni detenuti, nelle situazioni più delicate, avrebbero bisogno di almeno due colloqui alla settimana. Anche il colloquio è diverso dal setting di cui si può avere esperienza fuori: a San Vittore il setting è qualsiasi cosa, dall’incontro in corridoio – per esempio vicino al calorifero – a quello in pronto soccorso. Sei continuamente presente alle sollecitazioni dei detenuti. L’altra cosa che si cerca di fare sono gli staff multidisciplinari, che si possono richiedere non solo per i soggetti già indentificati come delicati, con gli educatori, i volontari, gli operatori che fanno alcune attività come il centro diurno per le persone più fragili o “Bambini senza sbarre” che si occupa dei bambini… La Polizia a San Vittore collabora tantissimo: c’è sempre da pensare che questi signori hanno fatto i poliziotti, non sono né psicologi né assistenti sociali.
FG: La vita nel carcere dalla parte degli operatori, che sia la parte psicologica, sanitaria o quella educativa o la parte della Polizia Penitenziaria mostra un buon livello di collaborazione. In tutto questo, i punti critici restano aperti, evidenti…ultimamente si parla molto di carcere per i suicidi, con questo disagio psicologico e psichiatrico che si vede affiorare sempre di più. Dal tuo punto di vista, quali sono le leve che si stanno muovendo o che dovrebbero essere messe in moto per gestire la situazione?
PG: Innanzitutto c’è un problema, che è anche molto banale: gli spazi. Tutto è celle, la richiesta è carcerare, carcerare, e poi salvare le vite. Tu pensa che se io devo vedere un paziente psichiatrico, lo devo vedere in corridoio, a meno che non ci sia un agente in più per caso che me lo accompagna nell’ufficio Nuovi giunti. Voglio fare un’attività con un qualsiasi gruppo? Mi scontro con il fatto che magari ci sono due stanze e non posso accogliere tantissimi detenuti – per ogni raggio parliamo di 400 persone. C’è poi un problema di strumenti, di movimentazione…
FG: Dalla fotografia che stai facendo emerge una situazione molto critica, per quanto gli operatori interni si diano da fare e collaborino. L’impressione che si ha è che non si riesca a trovare una gestione tollerabile all’interno di un sistema che dovrebbe essere di privazione della libertà e basta. La vita lì dentro mi sembra molto difficile.
PG: La vita è difficilissima, per i detenuti e per gli operatori, e questo va detto. Veramente le condizioni sono gravi, anche perché un terzo delle persone che sono lì – e un terzo è forse anche dire poco – non dovrebbero stare lì. In questo momento abbiamo anche deici persone internate, cioè che hanno finito la pena e dovrebbero essere in REMS, ma rimangono da noi per mancanza di posti.
FG: Spieghiamo meglio cosa significa: queste persone non sono più trattenute per la questione relativa al reato, perché hanno estinto il loro debito con lo Stato o non sono in grado di estinguerlo, ma per una questione di salute mentale dovrebbero essere all’interno di una struttura dedicata. La struttura non è disponibile e quindi le persone restano in carcere.
PG: L’alternativa al carcere per la psichiatria sono le REMS, gli ex manicomi giudiziari, che sono stati superati; se non c’è posto per tanto tempo un giudice può rivalutare la situazione per mandare la persona in una comunità psichiatrica e anche li segue tutta una burocrazia giudiziaria…ma tanto non ci sono posti. Il problema sono i posti: come i detenuti stranieri non vanno agli arresti domiciliari perché non hanno la casa, allo stesso modo (i malati psichiatrici) restano all’interno del carcere. E il carcere non è il loro posto.
FG: Manca quindi un’organizzazione territoriale, mi sembra di capire…
PG: Sì, esatto, manca il territorio.
FG: Il problema del carcere non è solo dentro al carcere. Il peggioramento della vita che stiamo vedendo in carcere è legata anche all’inadeguatezza del territorio fuori.
Paola, il tempo è volato; ti chiederei come battuta finale un aspetto che ti faccia piacere sottolineare dal punto di vista della situazione dei detenuti stranieri e su quelle che potrebbero essere le cose più utili da fare in questo momento. Per esempio, la pandemia ha avuto impatti molto limitanti nella vita interna – le celle chiuse, una reclusione molto peggiore di quello che è stato il lockdown per noi liberi cittadini e cittadine – ci sono però degli strumenti che sono stati attivati in pandemia e che esistono ancora e sono utili?
PG: Sì, e speriamo che non li tolgano. San Vittore ha dato immediatamente una risposta rispetto all’isolamento e al terrore di questa malattia che non si sapeva quanto mortale potesse essere. L’istituzione ha immediatamente attivato le telefonate quotidiane, anche via Skype, via WhatsApp, anche in Libia…a parte l’autorizzazione necessaria da parte di un giudice prima del processo, tutti i numeri e la gestione sono responsabilità che si sono presi i Direttori e che poi sono state avallate dalla Polizia. Portavano i cellulari in cella – cellulari particolari, con numeri particolari naturalmente – perché i detenuti potessero comunicare. Tutta un’attenzione alla situazione sanitaria veramente eccellente…
FG: Ad oggi si mantiene qualcosa di tutto questo o ci restano solo i brutti ricordi?
PG: Le videochiamate restano, le telefonate alla settimana sono più frequenti rispetto a una volta – ovvero per gli italiani una volta a settimana e per gli stranieri ogni 15 giorni – adesso anche tre/cinque volte a settimana. Si retrocede lentamente perché è difficile tornare indietro su quei tre diritti che hanno. Diciamo che San Vittore è un posto strano, lo definisco un pronto soccorso in posto di guerra; però è interessante perché chiunque può avere una chance. In questo senso lo trovo anche poetico, ti faccio un esempio: una persona entra, viene considerata rompiballe, che picchia, si taglia etc.…dopo un po’ si cura, si sistema e dopo lavora. Non ci sono preclusioni: lavorano gli stranieri come lavorano gli italiani; c’è un modo umano, anche da parte della Polizia…un luogo dove le chances possono essere date a tutti e questo lo trovo bello. Abbiamo dei detenuti che uscendo – e questo dice qualcosa del mondo fuori – vogliono salutarti, ti ringraziano e piangono. Questo ci dice cosa li aspetta fuori…
FG: Chiuderei con questa tua immagine poetica su San Vittore, con questa ultima notazione drammatica sulla situazione dei giovani stranieri quando sono reclusi e ti ringrazio molto per la tua disponibilità a questa chiacchierata e saluto i nostri lettori di FuoriVista per la prossima occasione.
PG: Grazie a te e al lavoro che il Naga fa all’interno del carcere. Per noi è fondamentale.