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Intervista – Gabriele Del Grande

Gabriele Del Grande,
Scrittore, giornalista e regista

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Davide Fracasso: Ciao a tutti e a tutte, benvenuti. Oggi abbiamo con noi Gabriele Del Grande, scrittore e giornalista che ci aiuterà a riflettere sul tema di chi migra e sul tema rifugiati. Benvenuto Gabriele.

Gabriele Del Grande: Grazie. Ben trovati a voi.

DF: Partiamo subito. Il tema dell’immigrazione è un tema che tocca il Naga tutti i giorni. Partiamo con la prima domanda: oggi si sente sempre più parlare di confini, la Presidente del Consiglio italiano ha parlato di difesa delle nazioni, delle identità e delle patrie alle Nazioni Unite.
In tutto questo la persona migrante, chi migra, chi viaggia, è visto come una minaccia da respingere, da lasciare fuori o nella migliore delle ipotesi da rinchiudere relegato in un limbo insomma. Oggi chi migra vede negati tutti i diritti fondamentali.
Ecco, secondo te, quale potrebbe essere il processo di superamento di questo che è ormai diventato quasi un frame culturale?

GDG: Forse dovremmo essere un pochino più precisi, nel senso che di persone che migrano ce ne sono tante e non tutte fanno paura. Metà dell’immigrazione in Europa è una immigrazione europea, parte del ceto medio istruito dei paesi comunitari. Ci sono italiani in Germania, spagnoli in Francia, polacchi in Inghilterra.
Poi c’è un’altra parte molto consistente di immigrazione latino-americana e dall’est europeo, dalle ex Repubbliche sovietiche, dai Balcani occidentali, tutti Paesi verso i quali esiste un regime di liberalizzazione dei visti. L’Albania, da cui si arrivava con i barconi nel ’91, dal 2009 è in regime di liberalizzazione dei visti. Quindi qualsiasi ragazzo si compra un biglietto on line e con il passaporto parte, senza porsi il problema di come arrivare, come entrare e di essere poi fermato in frontiera, pestato ed espulso.
C’è infine una migrazione che è sì indesiderata e che è fondamentalmente l’immigrazione “non bianca”, diciamo così, per capire di cosa parliamo. C’è un fondo di razzismo e di islamofobia che si sovrappongono; il mondo musulmano, il mondo asiatico, il mondo africano, sono mondi che L’Europa sta cercando di tenere fuori dopo che invece per anni e per decenni sono stati i principali bacini di immigrazione.
Per il libro che ho scritto ho passato anni a studiare la storia dell’immigrazione in Europa, la dinamica è proprio questa: l’Italia è arrivata un po’ tardi, ma sin dal dopo guerra, l’industria francese, della Germania dell’ovest e della Gran Bretagna aveva fame di proletariato, di braccia da lavoro e non aveva abbastanza lavoratori sul proprio territorio, un po’ per le stragi della Seconda Guerra un po’ per la forte migrazione europea verso le Americhe. I principali bacini dove si andavano a prendere quei lavoratori erano appunto i paesi del Magreb, l’India, il West Africa; per decenni sono stati posti da dove si sono importati lavoratori.
Poi è successo che oltre alle braccia sono arrivate le persone, sono arrivate le famiglie, sono arrivate le culture e a un certo punto sul ritorno del nazionalismo e dei fantasmi del nazismo del secolo scorso si è deciso di chiudere quella porta lì, attraverso l’istituzione dei visti, come strumento antimmigrazione. Oggi basta guardare la mappa dei Paesi verso i quali c’è l’obbligo dei visti per entrare in Europa e sono i Paesi dai quali si viaggia con il contrabbando, che sia Lampedusa o sulla rotta balcanica.
Dopo questa lunghissima digressione torno a rispondere alla tua domanda, come si fa a uscire da questo frame?
Ciò che è problematico è il tentativo della politica, e sostenuto fortemente da uno zoccolo duro della società, che vorrebbe che la linea del confine e la linea del colore coincidessero. Preso atto che siamo un continente vecchio come popolazione, con un serissimo problema di inverno demografico e che abbiamo bisogno di giovani e di lavoratori altrimenti salta tutto, il disegno è quello di portarli da Paesi teoricamente affini, ad esempio l’est europeo slavo, piuttosto che i paesi latini dell’America del sud e di tenere fuori tutti gli altri.
È come se quella che era la segregazione razziale negli Stati Uniti fino alla fine degli Anni Sessanta si riproponesse un pochino…come in una sorta di riserve nel mondo di colored areas dalle quali non vorremmo che le persone uscissero, tanto che la Meloni va a New York e chiede addirittura una guerra globale contro i trafficanti di esseri umani, come se tutto fosse mosso da un disegno criminoso delle mafie e non invece dalle norme sui visti.

DF: Spesso e volentieri si riflette sul fatto che l’immigrazione che viene mal gestita non è quella che porta solo una diversità culturale, ma anche una diversità di colore, come tu ripercorri anche nel tuo libro. Spesso in Italia si parla di integrazione, però poi il passo tra integrazione e assimilazione sembra molto breve.
Cosa ne pensi tu della parola integrazione?
Oggi per un richiedente asilo, un rifugiato, è possibile sentirsi a casa?
E sul lato accoglienza, cosa è possibile fare, considerati tutti gli ostacoli che vengono messi sia a livello burocratico sia a livello culturale?

GDG: Rispondo con qualche spot, qualche battuta. Non credo più all’integrazione, quanto piuttosto alla disintegrazione: penso che le storie, le culture, gli affetti, gli immaginari di chi viaggia, di chi arriva qui da ogni parte del mondo, in qualche modo si disintegrano e si riassemblano dopo, prendendo forma, contaminandosi, e contaminando anche le culture, gli immaginari, gli affetti, le lingue di chi vive qua.
E questo si vede soprattutto nelle generazioni più giovani che sono quelle più mescolate e si pongono meno il problema.
Noi siamo in ritardo sulla storia perchè appunto siamo un paese anziano, che per un quarto è fatto da over 65 che ancora fanno proprio fatica a pensare che l’Italia non sia più l’Italia nazionalista, omogenea dove sono cresciuti…ma il mondo è cambiato e cambierà sempre di più.
Rispetto all’accoglienza sarò provocatorio: a me non interessa accogliere, non mi pongo il problema. Mi pongo un’altra priorità. Premetto che non so cosa voglia dire sentirsi a casa e che ognuno si sente a casa in un modo diverso, non esiste un sentimento nazional popolare ivoriano o algerino di sentirsi a casa, sono questioni individuali.
Ripeto, non mi voglio porre la domanda e sarò ancora più provocatorio: non mi interessa neanche sapere se una persona una volta che arriva qua trova una casa, trova un lavoro, si sistema, si integra, si assimila.
Quello che mi interessa, quello che sogno, è un mondo in cui tutte le persone sono libere di spostarsi, libere di spostare il proprio corpo, attraverso le linee immaginarie dei confini – perché i confini sono linee immaginarie – e che possano farlo con dignità, cioè in poche ore di volo in aereo anziché in anni di sevizie, dolori, traumi, attraverso il deserto, il mare, le prigioni, e che possano poi decidere in autonomia dove inseguire la propria felicità nel mondo, che non è necessariamente a Milano o necessariamente in Italia.
Oggi è talmente complicato spostarsi che spesso si rimane vittime intrappolate dentro una mappa…la Convenzione di Dublino, le impronte digitali, i regolamenti vari.
Mi piacerebbe immaginare un mondo dove appunto le persone sono libere di spostarsi e farlo con dignità, di tentare la sorte in un Paese e magari scoprire che era tutto quanto una chimera, andarlo a cercare in un altro posto.
Esattamente quello che facciamo noi che abbiamo il passaporto rosso, il passaporto giusto, che ti dà quel potere di acquisto maggiore di mobilità. Con il giusto passaporto ti puoi spostare ovunque e non si pone il tema della tua accoglienza.
Così come noi oggi non ci poniamo il problema di come accogliere gli argentini, gli albanesi, i rumeni o i brasiliani; ci poniamo invece il problema dell’accoglienza, e in qualche modo anche del controllo, delle persone che sono costrette ad arrivare illegalmente, perché legalmente non c’è modo, e sono persone che quando arrivano hanno anche dei grossi traumi che non sono i traumi dell’esilio, ma i traumi di quello che hanno subito lungo un viaggio così lungo e faticoso che poteva semplicemente essere fatto in poche ore di aereo.

DF: Mi riattacco direttamente a quello che dici ora e a quello che scrivi nel tuo libro dove proponi una prospettiva storica. Rispetto alla parola rifugiato, che ha una connotazione ben precisa, tu parli anche di come nasce come figura nel dopoguerra.
Secondo te, oggi, qual è il significato di questa parola e come è cambiato rispetto al dopoguerra?
E cosa c’entra, per citare Zweig che citi nel libro, la xenofobia, in questa evoluzione?

GDG: Sì, più che di xenofobia bisognerebbe essere più precisi e parlare di razzismo, di islamofobia, di classismo. Zweig, (per chi magari non ha letto il libro, scrittore famosissimo, ebreo austriaco di Vienna) nelle sue memorie racconta di come ha girato il mondo senza passaporti fino al 1914. C’è stato un periodo tra metà Ottocento e l’inizio della Prima Guerra Mondiale in cui erano stati aboliti i visti e i passaporti; addirittura, in America c’erano diversi stati che avevano in costituzione il principio della libertà di movimento di qualsiasi straniero che arrivasse sulle proprie coste. È un altro mondo.
Quel mondo lì finisce e Zweig a un certo punto scrive questo atto di accusa contro la xenofobia, la diffidenza degli uni contro gli altri, ma si riferiva soprattutto ai nazionalismi europei, alle nazioni europee travolte in quel momento dal conflitto.
Sulla questione dei rifugiati ci sarebbe da parlare per ore. L’asilo inizialmente viene definito nel quadro della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel 1951.
Non so quanti lo sanno ma quella convenzione inizialmente era un’esclusiva degli europei, soltanto gli europei potevano chiedere asilo, non era previsto l’asilo né per i palestinesi, né per i coreani, né per gli indiani, i pakistani durante la partizione; era una questione europea che sostanzialmente serviva a sistemare gli sfollati dell’Est Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale che non volevano tornare al di là della cortina di ferro perché sapevano che li aspettavano i regimi comunisti che nella migliore delle ipotesi li avrebbero spediti nei gulag in Siberia oppure li avrebbero giustiziati. Anche perché molti di loro avevano impugnato le armi contro l’Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale.
Sono cose complesse da ricostruire; quello che è interessante è che per tanti anni c’è stato un uso un po’ ambiguo dell’asilo, nel senso che da un lato era una conquista giuridica, dall’altro era uno strumento della politica estera americana, soprattutto del blocco occidentale per incentivare le diserzioni nel blocco opposto, il mondo socialista.
Poi nel ’67 c’è questa grande svolta e venne riconosciuto l’asilo come un diritto fondamentale di tutta l’umanità. Infatti, nel libro, dico provocatoriamente che arriverà un giorno, come è stato fatto nella conferenza di New York per estendere l’asilo a tutti, in cui sarà estesa la libera circolazione a tutti. Ce lo auguriamo.
Rispetto al presente, diciamoci delle parole di verità…nell’Europa di oggi l’asilo politico cosa è? È soprattutto uno strumento per prendersi beffa delle norme europee sul divieto di movimento.
L’Europa, attraverso il meccanismo dei visti, si è inventata nel 1991 un divieto di viaggio dei poveri e anche del ceto medio di tutto il Sud globale. Sempre nel ’91, in risposta all’obbligo dei visti, inizia il mercato nero delle traversate nel Mediterraneo, il contrabbando, e le persone che arrivano, per mettersi in regola chiedono asilo politico. Sono flussi misti: ci sono persone che arrivano da Paesi in guerra e che sono a tutti gli effetti sfollati di guerra (si pensi ai Siriani, ogni stagione ha il suo conflitto che in qualche modo si incanala su quelle rotte) e poi ci sono tantissime altre persone, che sono la maggior parte, che usano quello strumento per cercare di prendersi beffa delle norme che vietano loro di spostarsi.
Questo è il principale problema attualmente, perché il sistema d’accoglienza di fatto diventa una grandissima fabbrica di clandestinità. A livello europeo, lo scorso anno, su un milione di domande d’asilo (¾ delle quali presentate da gente arrivata in aereo con visto turistico poi lasciato scadere, non certo via mare; stiamo parlando del ceto medio turco, iraniano, colombiano, venezuelano…persone che possono permettersi il visto e una volta arrivati si mettono in regola in quella maniera) più del 50% sono state bocciate. Ciò significa mezzo milione di illegali in più, o più correttamente illegalizzati, in Europa.
Questa gente che fine fa? Questo è uno dei problemi principali sul piatto, nel senso che da un lato l’asilo è una grandissima conquista della giurisprudenza europea, così come i ricongiungimenti famigliari nel 1968 (asilo e ricongiungimenti sono ad oggi gli unici canali con i quali si riesce ad aggirare il divieto di viaggio – ogni anno arrivano più o meno 800 mila tra coniugi e bambini. Bambini che nel disegno saranno assimilati e serviranno a ringiovanire questa popolazione di vecchi che abbiamo in Europa, con le culle vuote) e dall’altro lato appunto i rifugiati ai quali non si può non riconoscere l’asilo.
Questi due canali in qualche modo fanno saltare i piani di contenere al massimo l’immigrazione non bianca e al tempo stesso producono un problema, innanzitutto per le persone stesse…stiamo parlando dai 5 a 10 milioni di persone senza documenti, le stime variano molto. Persone davvero private di ogni diritto: senza documenti non puoi lavorare, non puoi affittare una casa, avere un medico, non puoi far arrivare la tua famiglia.
Immagino che voi al Naga ne vediate molte di queste situazioni. Situazioni in cui poi non è che tutti quanti sono eroi; in tanti si perdono e sono sconfitti dalla vita, casi sociali che poi ritroviamo in prigione, negli ospedali psichiatrici. Li troviamo a fare vite di miserie ai margini della società…persone arrivate qua ventenni nel fiore degli anni alla ricerca della grande fortuna. Sono tutte politiche che non hanno senso.
Mattarella ieri diceva “sono norme della preistoria a con cui cerchiamo di governare un fenomeno che nel frattempo è andato anni luce avanti”. Bisognerebbe fare tabula rasa e azzerare tutto partendo, io di questo sono convinto, dall’eliminazione di tutte le restrizioni alla libera circolazione.
Ovvero, che sia il mercato del lavoro, l’effettiva disponibilità di posti nei vari percorsi individuali a decidere chi va, e chi va dove. Perché poi non c’è solo l’Europa, nel mondo di oggi ci sono tantissime mete: i Paesi arabi del Golfo, il Canada, l’Australia, l’America, la Corea, la Turchia, l’India, la Cina…sono mille zone che attirano migranti da tutto il mondo.
Pensate che oggi nell’Unione Africana si contano 30 milioni di migranti africani: la prima destinazione dell’immigrazione africana è l’Africa.30 milioni di persone che circolano ormai quasi liberamente da un Paese all’altro.

DF: Stavo riflettendo sul fatto che da una parte c’è questo continuo movimento e dall’altra sembra che ci sia una convergenza a livello di governi per lucrare su questo fenomeno, anche probabilmente a livello elettorale. A noi ha colpito la citazione di Arendt che ha scritto nel ‘43 a New York nel celebre saggio “Noi rifugiati” che riporta: “la società ha scoperto che la discriminazione è la grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue, perché i passaporti e i certificati di nascita, e qualche volta persino le ricevute dell’imposta sul reddito, non sono più documenti ufficiali, ma questioni di differenziazione sociale.”
Questo ci aveva fatto venire in mente un po’ l’Europa, quello che tu hai chiamato “Fortezza Europa” ormai quasi 10 anni fa, se non sbaglio.
Ecco, di questo hai già parlato ma, secondo te, quale può essere il ruolo della società civile, quali sono i fronti di azione su questi temi?

GDG: Al di là delle cose pratiche da fare in tante situazioni di disagio, di emergenza – voi siete sul campo e conoscete meglio di me, non avete bisogno di consigli su questo – l’urgenza che vedo dal mio punto di vista, ovvero di uno che lavora sulla narrazione di questo fenomeno da ormai più di 15 anni, è quella appunto di cambiare narrazione.
Arriviamo da anni in cui il dibattito si è molto schiacciato; siamo ormai quasi a un derby, un confronto social schiacciato tra porti chiusi /porti aperti. Come se fossimo dentro a un labirinto con la faccia schiacciata contro un muro così vicino che non riusciamo più a trovare non solo la via d’uscita, ma nemmeno a capire dove siamo finiti.
Allora forse bisognerebbe magari esercitare un pochino di lucidità, non necessariamente d’empatia. Allontanarsi un attimo, sollevarsi un attimo in volo, vedere questo labirinto com’è fatto, la sua forma, come siamo arrivati in questo vicolo cieco e come uscirne fuori. Serve una narrazione nuova.
Io quello che provo a fare nel libro è una storicizzazione, dire: questa cosa ha una storia, ha avuto un inizio e una fine. Noi ormai abbiamo normalizzato tutto: gli sbarchi, la gente muore, i bambini neonati annegano, è normale, fa parte della vita…no non è normale, non fa parte della vita. Fino al 91 queste cose non c’erano, non accadevano. Esistevano sì persone senza documenti.  Dal 1973, quando è stato sospeso il reclutamento della manodopera dall’Unione Europea in tutta Europa – studiare per capire a cosa mi riferisco – è aumentata la popolazione non documentata, ma la gente arrivava in aereo. Da Tunisi si arrivava in nave a Palermo e il visto lo stampavano in frontiera. Da Algeri si andava a Marsiglia, dall’India si volava su Londra, da Istanbul a Francoforte etc.
C’è una storia. Studiare quella storia ci aiuta a capire quali sono le dinamiche, mettere a fuoco il problema e una volta messo a fuoco il problema ci aiuta magari a inseguire un’utopia.
Intendo questa cosa qua: parlo di passato, parlo di futuro e provo a mettere giù un’utopia, che è l’utopia massima: quella della libera circolazione. Di arrivare a dire: spostare il proprio corpo nel mondo non può essere un privilegio dei figli dei Paesi ricchi, dei Paesi dell’alto reddito. Un domani mia figlia cresce e io non mi so spiegare perché lei può andare in giro per il mondo e l’amichetto suo che magari va in classe con lei ha il permesso di soggiorno del padre che viene da un altro Paese e non può fare la stessa cosa. Non ho le parole per dirglielo. Una cosa o è di tutti, ed è un diritto o è solo di alcuni, ed è un privilegio. Secondo me inseguire quell’utopia lì, come dire, può aiutare ad immaginare un mondo nuovo e magari strada facendo pensare anche a costruirlo.

DF: Sì certamente. E qui chiudiamo sul tuo libro “Il secolo mobile: Storia dell’immigrazione illegale in Europa” che prova, anzi, propone una lettura diversa, tant’è che noi ci siamo stupiti di come nell’introduzione tu parli del mondo del 2050. E allora ci siamo chiesti come riesci ad avere una visione così ottimistica e positiva visti i tempi duri e spietati che stiamo vivendo. Nel senso che siamo in una bolla come tu dicevi, e però 2050 sembra molto vicino. Nel libro tu immagini che nel giro di 20-25 anni può cambiare tutto.

GDG: Io ne sono convinto: il futuro è quello. Quando inizi a studiare e mettere in fila le cose dalla prospettiva italiana, europea, internazionale e metti in fila i dati e vedi che ci sono delle tendenze…ci sono chiaramente delle azioni repressive, ma c’è anche una reazione in qualche modo, che fa sì che le cose non vadano propriamente come vorrebbe la propaganda di chi adotta certe norme.
Nel mondo in questo momento ci sono 280 milioni di espatriati, persone che vivono all’estero. Tra l’altro – piccolo dettaglio – percentualmente sono di più quelli che espatriano dai Paesi ricchi che non quelli dai Paesi poveri, perché nel mondo di oggi spostarsi all’estero è normale, anzi, è un valore aggiunto la mobilità internazionale.
Non è il caos, la fame o la disperazione che decide chi parte…sono i sogni, le ambizioni e i mezzi che tu hai per aprire la porta di una frontiera e pagarti poi il percorso migratorio. Questo cosa ci dice? Ci dice che per come va il mondo – boom economico del sud est asiatico, la potenza dei nuovi giganti India e Cina, ma anche l’andamento dell’economia a sud del Sahara che in alcuni Paesi è molto interessante, stanno facendo passi da gigante – man mano che quella classe media si allarga ci saranno più giovani che avranno i mezzi, la voglia e l’immaginario per partire, andare via, andare all’estero.
In questo secolo migrare non è quello che facevano i nostri bisnonni che andavano in America e dicevano addio ai parenti che non avrebbero più rivisto. Oggi atterri e chiami in videochiamata i parenti, rimani in contatto, fai avanti e indietro, ti sposti da un Paese all’altro. Ci sono percorsi brevi, circolari, di crescita professionale; arriveranno meno braccianti e più studenti, ricercatori, artisti, talenti. Il mondo è in movimento e sarà sempre più in movimento.
E anche i divieti di viaggio di Schengen, il regime dei visti, non fermerà la gente, che arriverà e lo farà per la maggior parte in modo legale, grazie alle cose che dicevamo prima: ricongiungimenti e asilo politico. Ci sono degli studi, che nel libro cito, che fanno delle previsioni su dei numeri: da qui al 2050 arriveranno soltanto dall’Africa in tutta Europa circa 15 milioni di persone. E arriveranno in aereo, arriveranno ricongiungendosi con quelli che io nel libro chiamo “i pionieri dell’immigrazione”, cioè quei 3 milioni e mezzo di senza visto che hanno disobbedito alle leggi dell’immigrazione, quindi un’immigrazione illegale nel senso ribelle, vietata per legge, e che si riprende lo stesso il diritto a spostare il proprio corpo nel mondo.
Quei 3 milioni e mezzo di persone che sono entrati in qualche modo si sono messe in regola alla fine, chi con l’asilo, chi con sposandosi, chi facendo una sanatoria…porteranno i loro figli, porteranno i loro coniugi, i loro figli porteranno altre persone…finché a un certo punto saremo così mescolati che avremo superato il grande tabù.
Il tabù per cui i popoli bianchi non si devono mescolare con gli altri popoli, che è esattamente l’eco dei fantasmi del razzismo, della gerarchia razziale che ha dominato i secoli del colonialismo: all’inizio del 900 c’erano gli zoo umani in Europa. Nel libro racconto questa cosa. Gli zoo umani! La gente veniva a vedere il nero in gabbia, in Europa, negli Stati Uniti. Queste sono cose che non spariscono dall’oggi al domani, in qualche modo rimangono nell’immaginario collettivo. Questa roba sarà spazzata via dalle prossime generazioni che saranno così mescolate da stabilire, come anche nel 67 si fece con l’asilo, che la libertà di circolazione è un diritto di tutti. Ci si renderà conto che quello che oggi è già stato fatto con l’Europa orientale – la libera circolazione – si farà con il resto del mondo e quel giorno quelli che oggi sono centri di accoglienza a Lampedusa, a Lesvos o Fuerteventura diventeranno musei.
Musei dell’immigrazione dove arriveranno i discendenti di questa gente che attraversò il mare in quella maniera e con quei pericoli…e li inizierà la parte difficile, perché i nostri nipoti ci chiederanno conto. Ci chiederanno come fu possibile tutta l’indifferenza non solo nostra, ma anche degli abitanti dell’altra riva di fronte a decine di migliaia di morti che non ci facevano ad un certo punto né caldo né freddo.

DF: Infatti è bello quando li chiami “pionieri”; fa venire in mente Garrone, perché il cambio di prospettiva è quello. È vedere queste persone e vederle anche con quello che rischiano …e quando noi incontriamo quelle persone effettivamente c’è questo portato che è molto importante. Gabriele del Grande grazie!

GDG: Grazie a voi!

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