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Il Naga si racconta – Gruppo Psicologhe

Gruppo Psicologhe

Al Naga il gruppo delle psicologhe promuove interventi di psicoterapia o di percorsi di sostegno psicologico rivolti a migranti, richiedenti asilo e vittime di tortura. I motivi per cui le persone si rivolgono al gruppo sono molteplici e variegati e includono ansia, attacchi di panico, depressione, disturbi psicosomatici, problemi relazionali. Quasi sempre l’origine di questi disturbi è complessa e affonda le radici nelle storie traumatiche, familiari e di migrazione, di queste persone.

Al Naga e altrove, chi ha avuto esperienze felici in psicoterapia o chi la psicoterapia la porta avanti come mestiere concorderà su un punto: l’accoglienza senza giudizio e l’ascolto empatico da parte del terapeuta sono le condizioni minime per imbastire un lavoro clinico. All’apparenza nessun luogo potrebbe sembrare più lontano dalla violenza, verbale o non verbale, della stanza della terapia. Esistono, tuttavia, diversi modi di comunicare violenza tramite il linguaggio e molto spesso vanno al di là delle intenzioni di chi la agisce.

Anni fa seguivo in terapia al Naga una paziente che, come moltissimi dei migranti che incrociamo, portava i segni di una traumatizzazione complessa. A condizioni di base fatte di estrema precarietà economica e di vita, si sommavano passate violenze psicologiche, fisiche e sessuali, il trauma del viaggio migratorio e quella sensazione diffusa tra i migranti irregolari di non potersi sentire mai al sicuro nemmeno nel nostro paese. Ricordo che gran parte delle nostre sedute erano occupate dal grande macigno dei suoi problemi materiali, che le toglievano ogni speranza: i debiti, lo sfratto, la perdita dei documenti, l’impossibilità di trovare lavoro. Questo presente ingombrante affaticava anche a me. Mi sentivo arrabbiata e impotente e avvertivo l’urgenza di attivarmi molto su un piano materiale per fornirle tutto l’aiuto che mi era possibile. Sentivo che, finché non avesse trovato una casa in questa città – intesa come luogo in cui si dà per scontata la propria presenza e il proprio diritto ad esserci – nessun lavoro sui suoi traumi sarebbe mai stato possibile.

Ci fu una grossa rottura relazionale tra di noi. In un sottile lavoro di ricostruzione, emerse un forte senso di rabbia e costrizione nei miei confronti perché il mio aiuto “ingombrante” acuiva una sua percezione di inferiorità, le toglieva potere: per l’ennesima volta veniva ricollocata tra le vittime. Ecco uno dei modi in cui nei contesti di volontariato si può agire una violenza sottile. E’ stato per me di grande insegnamento.

La grande mobilitazione verso l’altro, il desiderio di aiutarlo ad ogni costo, contiene spesso forti spinte personali: il bisogno di sentirsi speciali, di sottrarci a disturbanti emozioni di impotenza e rabbia, di combattere proprie lotte personali facendo dell’altro il nostro strumento di battaglia. Aiutare a volte è così inebriante, così strutturante per l’identità, che ci si dimentica paradossalmente chi si ha di fronte, il suo sentire. Non si sta più in relazione tra pari. Fra tutti cito l’abitudine diffusa a dare del tu agli stranieri, pure se agita in chiave amorevole. La persona percepita come vulnerabile e indifesa viene trattata come la categoria indifesa per eccellenza, i bambini, infantilizzando e togliendo potere di auto-definirsi all’altro.

Chiunque abbia scelto il Naga come luogo di impegno politico sa che da volontario non si muoverà mai in modo neutrale: l’aiuto che si offre all’altro non è caritatevole, ma acceso da un chiaro posizionamento politico teso alla lotta per i diritti. In terapia, dove la cura della relazione con il paziente è parte cruciale del processo terapeutico, questo posizionamento è particolarmente delicato. A volte, la preziosa condivisione con il paziente della radice socio-politica del trauma, da momento di cura può trasformarsi in una forma infiorettata di assoggettamento culturale, di vittimizzazione involontaria. Nel momento in cui credevo di costruire un’alleanza, stavo invece rimarcando per la mia paziente la forza del mio privilegio di occidentale ricca e fornita di diritti che nel tempo libero elargisce i suoi servizi a titolo gratuito e allarga la misura di una inaccettabile asimmetria di potere.

La violenza nella comunicazione si muove naturalmente anche in direzione opposta, dagli utenti ai volontari. Può capitare di fare esperienza di interazioni aggressive, in cui le domande o le richieste d’aiuto hanno più la forma di pretese, se non di minacce. Diversi fattori, legati a variabili sociodemografiche, contestuali, al funzionamento psichico o alla storia di vita possono porre una persona più a rischio di avere comportamenti aggressivi (es. imponenti eventi stressanti recenti, uso di alcol o di sostanze, bassi livelli di istruzione, storie di abusi o di ambienti famigliari disfunzionali). A volte, in termini relazionali, l’atteggiamento aggressivo è anche l’esito di un fallimento della fiducia nell’altro. Quando altre possibili strategie per ottenere qualcosa – più sane, funzionali e meno pericolose – si sono rivelate sistematicamente inutili, e la speranza che l’altro possa essere d’aiuto è flebile, spaventarlo o tentare la via della coercizione può sembrare l’ultima strada percorribile. E’ un’aggressività disperante, che le persone che incontriamo al Naga, portatori di un nutrito curriculum di dinieghi, frustrazioni e rifiuti spesso promossi istituzionalmente, possono conoscere molto bene.

Nel nostro contesto Naga, l’aggressività può essere un prodotto della mancanza di speranza come può esserlo anche di un eccesso di aspettative. Il volontario viene investito con violenza del ruolo di salvatore e gli si chiede di supplire da solo ai tantissimi vuoti di un sistema che non funziona.

Le persone che arrivano al Naga hanno spesso ricevuto una serie di rifiuti precedenti, sono stati respinti da diversi servizi, gli è stato detto “mi spiace, non possiamo aiutarti”. Giunti al Naga trovano una persona che si prende cura di loro e del loro bisogno senza porsi troppe domande di documenti, provenienza, genere. Sentirsi finalmente accolte, probabilmente dopo molto tempo, genera grandi aspettative nella persona che, finalmente, crede che la volontaria non solo esaminerà la sua richiesta, ma troverà una soluzione. Il processo, però, non è necessariamente così lineare: può succedere di non riuscire a soddisfare la richiesta, riuscirci solo in parte o fornire una risposta che, seppure affermativa, è diversa da quella aspettata. Questo, non solo provoca grande frustrazione nel volontario, ma può suscitare una reazione violenta nella persona che sta cercando di aiutare: in quel momento la sua attenzione non è su quel qualcuno che ha fatto il possibile per aiutarlo, ma sulla consapevolezza che, ancora una volta, il suo bisogno non verrà soddisfatto. Dobbiamo cogliere il suo vissuto: l’ennesima sconfitta.

Quanto detto, deve illuminare tutti i nostri meccanismi comunicativi con le persone che chiedono un aiuto al Naga. È in questo frangente che comunicare con cura diventa fondamentale, e si può per questo tenere a mente alcune pratiche.

  • Prendersi il tempo per restituire: è il primo elemento sul quale si basa tutta la nostra comunicazione. Definito uno spazio adeguato, soprattutto per comunicazioni più delicate, ci si deve prendere il tempo necessario per permette di creare quella relazione, quella sintonia, che permetta di allinearsi sugli obiettivi che si vogliono perseguire, anche se non sempre possibili fino in fondo. Per la persona che si rivolge al Naga sentire di non essere sola, anche di fronte a una risposta negativa, allevia il portato emotivo di quella comunicazione. Ricordiamoci che la percezione del tempo non è unica e uguale per tutte le persone; i limiti di tempo (spesso imposti dalle circostanze) non li decidiamo noi, così la persona con cui stiamo parlando rileva autonomamente l’adeguatezza del tempo speso con lei.
  • Cercare le parole adeguate: definito lo spazio, si deve riempire quel tempo di parole adatte e specificamente empatiche, cioè tali da permettere di “sintonizzarsi” con il vissuto e i bisogni dell’altra persona. Una comunicazione non violenta si basa quanto più sulla dimensione emotiva, sui significati. Prestare attenzione a questi aspetti permette di abbassare le difese della persona con cui parliamo favorendo quindi una maggior apertura al dialogo. Se necessario, si possono mettere in comune parti di sé come piccoli vissuti, per favorire una conoscenza reciproca. In questo modo la persona con cui si parla ci percepisce non come una perfetta estranea, ma una persona più conosciuta, vicina, rendendo quindi anche la comunicazione più calda. È fondamentale tenere a mente quel rapporto di asimmetria che inevitabilmente si viene a creare tra la persona volontaria, con il privilegio occidentale di poter prestare un servizio nel suo tempo libero, e l’utente che giunge al Naga che mette a nudo le sue difficoltà: economiche, abitative, di salute, sociali e legali.
  • Lasciar lo spazio necessario a esprimere dubbi e perplessità: una domanda senza risposta è un dubbio che rimane aperto, che ci perseguita. Nei momenti, spesso concitati perché avvertiamo le altre persone in lista d’attesa, è fondamentale lasciare il tempo alla persona di riflettere su quanto si sta discutendo, di permetterle di riformulare quanto si è discusso per assicurarci che abbia compreso bene, di chiedere chiarimenti qualora le nascano dei dubbi. Quest’accortezza permette alla persona di sentirsi parte del processo: come in un percorso di psicoterapia, la persona non è solamente colei che giunge per fare una richiesta ed esce con delle risposte, ma una parte attiva del percorso.
  • Non infantilizzare: può succedere in maniera automatica di rivolgersi alle persone che giungono al Naga dandogli del “tu” e adottare un tono simile a quello che potremmo rivolgere a una persona in qualche modo a noi in sottordine. Spesso lo si fa con lo scopo di semplificare il discorso, ridurre la barriera linguistica che molto spesso ci ostacola. Tuttavia, questa modalità può essere il riflesso, frutto anche dell’abitudine nello svolgere l’attività e della comunicazione nella quale siamo immersi, di una componente inconscia che ancora una volta evidenzia quel rischio di asimmetria tra volontario e utente: “le poverette”, “gli sfortunati”. Dietro quel semplice “tu”, non concordato tra le due persone parlanti, c’è quel sentire inconscio che sottrae alla persona di fronte la capacità di auto-definirsi. Non si pensa alla persona con cui si parla come portatrice di usanze, passioni, studi e lavoro: questa si trova lì semplicemente come una persona che ha attraversato eventi traumatizzanti e che ha annullato tutte le altre parti del sé.

La persona che viene al Naga ha già vissuto diverse volte la sensazione di perdere la dignità, di sentirsi “annullata”, basti pensare alle esperienze agli sportelli degli uffici pubblici, negli ospedali o nell’iter per l’ottenimento dei documenti.

Alcuni gesti di cura possono rendere il Naga – che ogni giorno costruiamo e manteniamo come posto sicuro – un luogo dove la persona si senta accolta in tutta la sua complessità, e non semplicemente come una persona migrante.

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