Federico Faloppa,
Professore di linguistica presso l’Università di Reading in Gran Bretagna, coordinatore della Rete Nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni di odio e saggista
Le parole e il triangolo del potere
Guarda l’intervista
Ascolta l’audio originale dell’intervista
Marta Pepe: Ciao a tutte, tutti e tuttu. In questo numero della Newsletter Fuorivista del gruppo Osservatorio del Naga intervistiamo Federico Faloppa, linguista italiano, professore di linguistica presso l’Università di Reading in Gran Bretagna, coordinatore della Rete Nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni di odio e autore di diversi saggi sulle tematiche che affronteremo oggi.
Lascio la parola a Federico che ringrazio per essere qui con noi e per impiegare il suo tempo per il Naga e per la nostra causa.
Ecco la prima domanda: Quando delle semplici parole possono cambiare l’esito di un percorso? Cito un fatto per contestualizzare meglio, il caso di una donna richiedente asilo che aveva subito delle violenze e delle molestie da parte di un gruppo criminale che la pedinava nel suo Paese di origine; durante l’audizione davanti alla Commissione Territoriale, per esporre appunto il suo caso, l’interprete usava la formula “mi davano fastidio” per tradurre l’espressione “mi perseguitavano” o “mi molestavano”.
Sembra una sfumatura linguistica, ma cambia completamente la dimensione e la portata del racconto e dell’esperienza vissuta dalla richiedente asilo in questione e ovviamente anche l’esito dell’audizione che, infatti, è stato negativo. Solo con il ricorso, dopo diversi anni, il giudice ha ribaltato la sentenza leggendo il racconto dell’avvocato.
Ecco Federico, spiegaci che cos’è che è successo in questo episodio. Questi episodi sono frequenti, qual è la tua esperienza?
Federico Faloppa: Grazie al Naga per questa opportunità. Sono molto legato al Naga da tanti anni: dieci anni fa fui coinvolto in una bellissima ricerca che si intitolava “Se dico Rom” sulla rappresentazione dei Rom e dei Sinti in Italia, in particolare nella stampa locale. Già dieci anni fa col Naga si dialogava intorno all’importanza delle parole e della comunicazione. Partiamo da questo episodio che non è unico, singolare; mi è capitato spesso, dialogando con tanti soggetti della società civile che accompagnano le persone alle Commissioni Territoriali per le interviste – un passaggio fondamentale e importantissimo della loro esperienza, nell’ipotesi e nella speranza di ottenere poi un agognato permesso e uno status di richiedente asilo e di rifugiato. Ebbene, queste esperienze si ripetono, sono tante.
E proprio l’aspetto linguistico è determinante perché basta tradurre male o in modo approssimativo una parola e il racconto cambia, cambiando anche l’esito dell’intervista. Ebbene, non soltanto in Italia, ma anche in Inghilterra dove lavoro, in Danimarca e in molti Paesi europei, si cerca di fare tantissima formazione agli interpreti, proprio al fine di evitare queste situazioni; tuttavia, anche se si fa molto lavoro, i casi simili a quello raccontato sono molti.
Faccio alcuni esempi e poi cerco di capire insieme a te perché è così importante essere attenti a queste circostanze e come la società civile possa essere un presidio permanente di supporto e di formazione in generale, anche per chi è coinvolto nelle Commissioni Territoriali, nelle interviste.
L’episodio che tu racconti me ne ricorda altri che fanno parte della letteratura inglese, ma non solo: per esempio, in un’intervista, in questo caso in Danimarca, il racconto di una persona che diceva di abitare vicino a una moschea era stato tradotto come “è vicino a una moschea”, cioè come se avesse espresso una vicinanza valoriale, politica, ideologica; guarda caso, quella moschea era poi stata identificata come luogo dove si professava l’Islam radicale e quindi a questa persona venne negato il permesso e la Commissione espresse un parere negativo. In questo caso la traduzione fu inaccurata.
In molti Paesi europei ci sono commissioni simili a quelle italiane. Ci sono anche altri problemi, per esempio quando si chiede una traduzione in arabo a un interprete, ma l’arabo non è lo stesso parlato dalla persona che viene intervistata: l’arabo libico non è l’arabo siriano, l’arabo siriano non è il l’arabo tunisino. Anche in questo caso c’è voluto un po’ di tempo per capire che non bastava un interprete che parlasse arabo per dare un ausilio alle persone intervistate, bisognava capire quale tipo di arabo e come mettere a proprio agio le persone. In un altro caso, questo in Inghilterra, si doveva per esempio accertare il coinvolgimento di una persona nella tratta di esseri umani e la persona intervistata ha parlato di uomini armati che la minacciavano; l’espressione è stata tradotta con uomini in modo molto generico, veniva tolto dalla traduzione l’elemento di minaccia e anche in questo caso, la traduzione è stata determinante per l’esito.
Tutto questo ci dice tante cose, una fra tutte, che dobbiamo fare un grande sforzo per trovare le risorse adeguate, anche sul piano linguistico, per accompagnare le persone nelle Commissioni Territoriali ed essere preparati, come società civile, a dare un apporto. Certamente le Commissioni Territoriali hanno i loro interpreti e ci sono linee guida molto chiare su come preparare un’intervista, redatte dal Ministero degli Interni e dall’UNHCR nel 2017 e riviste negli anni successivi: c’è un capitolo importante proprio sull’interpretazione, sulla formazione degli interpreti non soltanto sul piano linguistico, ma anche sul piano etico.
Qual è l’importanza di questa figura professionale? Chiaramente, se si fanno le cose in modo approssimativo e si prende la prima figura di interprete che si trova, sul piano linguistico potrebbero poi esserci dei problemi, come abbiamo visto prima. Questo ci fa capire anche il meccanismo farraginoso dell’intervista della Commissione Territoriale, che si basa molto sull’espressione linguistica. Si era detto che le interviste sarebbero state video registrate anche per permettere più facilmente una verifica, un appello, mentre invece ci si basa ancora sulla sola trascrizione; l’elemento della trascrizione può essere manipolato o manipolabile. E quindi o le Commissioni Territoriali costituiscono un elemento neutro che dà la possibilità alle persone di raccontare la loro storia e di essere ascoltate per le storie che raccontano, oppure le interviste sono in qualche modo già uno strumento per interpretare e quindi portare a un esito negativo della decisione, un diniego della richiesta. Si tratta di un elemento importante, se ne parla in tanti Paesi in Europa.
Chiudo dicendo che si può fare anche molta formazione: in Inghilterra, per esempio, si lavora non soltanto sul livello linguistico, sulla precisione della traduzione e dell’interpretazione, ma anche sul cosiddetto triangolo di potere che comprende la Commissione, la persona intervistata e l’interprete. L’interprete deve essere una figura molto neutra e deve dare lo stesso tipo di ascolto sia alla Commissione sia alla persona intervistata. In molti casi, invece, vediamo che il potere è sbilanciato, l’interprete è come se, in qualche modo, desse le risposte alla Commissione perché pensa che quelle siano quelle che la Commissione stessa vuole ascoltare; questo può andare a detrimento della testimonianza della persona intervistata.
Ho visto personalmente questa dinamica, non nelle Comissioni Territoriali – che non permettono la presenza di estranei – ma nei campi rifugiati. Per dei progetti di ricerca a Patrasso, nel 2017 in un campo profughi che avrebbe dovuto essere uno dei luoghi di accoglienza, dove c’erano delle persone che erano in attesa del processo di richiesta d’asilo e quindi in attesa di essere intervistati, ho visto e sentito degli interpreti delle Nazioni Unite che non solo traducevano in modo approssimativo, ma in qualche modo davano dei giudizi sulle persone di cui traducevano le parole, dicendo ad esempio “non dovete credere a quello che dicono”. Lo dicevano ovviamente ai funzionari, agli ufficiali. Questa è una cosa gravissima, perché appunto l’interprete ha un ruolo importantissimo non solo sul piano linguistico, ma nella gestione del potere all’interno di quel contesto, che è chiaramente determinante per l’esito. Il potere determina l’esito, ma determina anche una rappresentazione stereotipica di chi viene intervistato.
Si tratta di un tema centrale, quello per cui le parole possono determinare purtroppo la vita o la morte, l’accettazione di una richiesta d’asilo o il suo diniego, determinando poi il destino delle persone stesse, delle loro famiglie e delle persone che stanno loro vicino.
Quindi è fondamentale che ci interroghiamo sull’importanza della lingua in questi contesti ed è altrettanto fondamentale che formiamo delle persone competenti e che come società civile siamo disponibili a dialogare con chi fa interpretazione che non può essere soltanto l’interprete, una persona che viene chiamata dalla Commissione, bisogna lavorare bene anche in preparazione dell’intervista, fare corsi di formazione permanenti. E poi, soprattutto, bisognerebbe pretendere la videoregistrazione dell’intervista, perché da questa si ricaverebbero elementi di comunicazione non verbale che sono fondamentali in contesti dove il potere è sbilanciato e dove la persona intervistata già subisce un’ingiustizia discorsiva: quello che viene detto da lei, (osservata, con gli occhi puntati addosso) ha uno spazio discorsivo inferiore, diciamo così, più debole, più fragile, rispetto a quello della Commissione e quindi anche il linguaggio non verbale sarebbe un elemento importante per capire come l’ambiente – che le linee guida del Ministero dicono debba essere sicuro, protetto – dia garanzie sul piano non verbale. Sul piano pragmatico delle dinamiche discorsive in quel contesto o c’è il rispetto della persona, oppure si stabiliscono delle relazioni di potere che vanno a inficiare l’esito dell’intervista.
MP: Grazie Federico, molto interessante. Ti chiedo ora una riflessione sui linguaggi di appartenenza: semplificando molto, possiamo dire che destra e sinistra in Italia hanno dato ampio esempio di come il linguaggio può essere utilizzato in modo negativo, In questo periodo in particolare, ci stiamo godendo quello di destra, che probabilmente più di altri, ma non troppo, è di estrema sguaiataggine. È un linguaggio che sdogana un modo di pensare, una rappresentazione che per noi è insopportabile, insostenibile.
Quindi ti chiedo: che cosa nasconde il linguaggio attuale?
Nel caso degli esseri umani, nessuno escluso, possiamo registrare una tendenza, una necessità a isolare chiunque non faccia parte del nostro gruppo, del nostro clan, del nostro spazio di appartenenza e a ritenerlo un nemico, un soggetto da identificare, da cui difendersi, un soggetto vulnerabile, carente, comunque manchevole di qualche cosa; un soggetto che è necessario controllare.
In questo ragionamento, quindi, qual è il ruolo del linguaggio e delle parole, nel bene e nel male? Che funzione ha e come la parola è veicolo del sentire sociale e dell’agire istituzionale?
FF: La sguaiataggine del linguaggio mi sembra che sia un elemento che certamente fa parte del nostro contesto attuale; non è un elemento originale, nel senso che vediamo da anni una tendenza a un linguaggio sguaiato che in qualche modo mescoli contesti, ad esempio il contesto istituzionale con quello più informale.
Parlare alla pancia dell’elettorato, invece che cercare di costruire degli argomenti di riflessione anche pubblica e politica, non è qualcosa che dobbiamo alla destra al potere oggi, ma un fenomeno che vediamo da almeno tre decenni. Non a caso i linguisti che l’hanno studiato parlano di “gentese”: dal “politichese” si è passati al “gentese”. Il politico deve dimostrare di saper parlare appunto alla pancia dell’elettore, perché l’elettore si possa così riconoscere in quel discorso, in quel linguaggio, non vedendo più il politico come esponente di un’élite che parla difficile, in modo incomprensibile.
Certamente questo ha avuto un’accelerazione con la Lega di Bossi e poi è entrato un po’ in tutti i domini politici e in tutti i partiti, non soltanto a destra. La tendenza attuale costituisce il punto d’arrivo di tanti anni di mancato controllo del linguaggio, soprattutto del linguaggio istituzionale, e anche di una mancata alternativa dal punto di vista linguistico da parte della sinistra. Il linguaggio attuale si costruisce intorno a delle parole chiave che sono quelle della sguaiataggine – sessiste, razzializzanti, omofobe – di cui alcuni politici fanno vanto. Lo vediamo quasi tutti i giorni: l’ultimo caso mediatico, il Gianbruno di turno che in televisione si è fatto quelle sortite, considerando che non era un personaggio qualsiasi, ma il compagno della Presidente del Consiglio.
C’è questa dimensione che spesso sembra essere minimizzata, “non avete capito, stavo scherzando, era un fuori onda, non si può più dire niente, siete dei bacchettoni, dei moralisti, eccetera”; non è così. Purtroppo si è sdoganato moltissimo l’uso di parole, espressioni, modalità che sono entrate nel linguaggio pubblico, politico, anche istituzionale, mentre invece avrebbero dovuto rimanere in un linguaggio informale, contestualizzato. Io non dico che il linguaggio vada censurato, anzi, sono sempre stato contro la censura linguistica. Bisognerebbe però che si usasse un linguaggio consono a seconda dei contesti, a seconda del pubblico a cui ci si rivolge, questo sì. Allora bisognerebbe aspettarsi che chi fa politica a livello istituzionale intanto rispetti le istituzioni, non si rivolga soltanto al suo elettorato, ma rispetti le Istituzioni che rappresenta; e che poi, grazie anche al rispetto delle Istituzioni, usi un linguaggio appropriato che non offenda, non solo una parte dell’elettorato, ma anche l’intelligenza delle persone.
Venendo all’attualità, mi pare che questo sia solo una parte del problema: certamente quando ci sono questi casi eclatanti noi abbiamo già le antenne dritte, critichiamo, ne discutiamo “Eh, ma che cosa ha detto? Che cosa ha fatto? Quella parolaccia, quell’espressione, quell’espressione sessista?” fornendoci la possibilità di reagire, tutto sommato. C’è una parte però più subdola del linguaggio in cui siamo avvolti pubblicamente e politicamente oggi, e cioè la costruzione di parole chiave e di un senso che è meno sguaiato, ma che fa molti più danni. Faccio un esempio: il fatto che la destra al potere abbia riportato a confrontarci, anzi, riportati a focalizzare la nostra attenzione su parole chiave come patria, nazione, popolo, – quest’ultimo inteso però come un sistema o un insieme omogeneo che non ha bisogno di intermediazione politica o istituzionale, ma chiede quasi un’adesione naturale, spontanea, senza critica a un progetto politico, la nazione che poi appunto diventa patria, sangue, relazioni, tradizioni.
Questo sistema di senso che ruota intorno ad alcune parole chiave fa sì che, da un lato, la destra se ne appropri e quindi sia molto difficile poi ricontestualizzarle, risemantizzarle; a me ad esempio non dispiacerebbe fare dei discorsi sulla nazione, il popolo. “Popolo” è una parola bellissima, presente anche nella tradizione di sinistra del movimento operaio. Tuttavia, oggi, popolo diventa il popolo che dà quasi un potere assoluto, che legittima qualsiasi cosa tu faccia, che ti spinga, per esempio, al presidenzialismo, ovvero il popolo che ha ragione, che deve votare, che deve decidere. Ecco, mi piacerebbe invece che si tornasse a risemantizzare questa parola per le sue tante sfumature, accezioni che ha avuto.
A mio parere, questo è un aspetto più pericoloso del discorso, perché finché c’è l’espressione sguaiata, noi immediatamente la riconosciamo e sappiamo che si è passato un certo limite, anche se, come conseguenza succede poco o nulla, perché purtroppo quella sguaiatezza è stata normalizzata, fa parte ormai di quella varietà di discorso. Quando invece viene risemantizzato tutto un lessico istituzionale, e quindi si toglie spazio alle parole stesse, attribuendo loro un unico determinato significato e utilizzandole con quell’unica accezione identitaria, iper-identitaria, di adesione incondizionata a un progetto politico, si crea una devianza e chi è contrario diventa l’altro, diventa il nemico.
Non è un caso che questa destra al potere lavori moltissimo anche sulla parola “devianza” (le devianze dei giovani, le devianze, etc): tutti quelli che deviano dal progetto determinato da queste parole chiave, che cerca di ricostruirsi intorno alla nazione come corpo omogeneo che deve difendersi da nemici esterni e interni; tutti quelli che non aderiscono in modo incondizionato, acritico a questo progetto diventano appunto delle devianze. Questo io lo trovo più pericoloso, sia sul piano lessicale sia sul piano reale, perché su questo ci difendiamo meno, in qualche modo lo sentiamo, lo subiamo, ma non crea quella indignazione che invece creano le espressioni sguaiate di cui parlavamo prima. E’ un fenomeno meno riconoscibile che però determina moltissime scelte politiche e anche cambiamenti epocali: se si va verso un presidenzialismo, ad esempio, è perché, anche sul piano linguistico e lessicale, la strada è stata preparata da questa risemantizzazione dei termini chiave e che tolgono spazio al dibattito democratico, alla discussione sul piano linguistico.
Pensiamo al termine “famiglia” e all’accezione in cui viene utilizzato: chi non fa parte o chi non aderisce alla famiglia tradizionale è un deviato, esercita delle deviazioni, delle devianze. Quell’accezione ormai è passata, per cui la famiglia è quella che loro intendono come famiglia tradizionale, composta da una donna e da un uomo. I media poi aiutano la risemantizzazione che spinge all’individuazione del nemico, come colui che non aderisce acriticamente a questo lessico. Un lessico che, come dicevamo, non è soltanto normale questione di linguaggio e di vocabolario, ma diventa processo politico, proposta politica che passa, quasi naturalmente.
Il nemico viene costruito con la propaganda, che si esercita in tanti modi, certamente anche attraverso i nuovi mezzi di comunicazione che non ci aiutano ad assumere delle posizioni critiche intermedie; c’è una polarizzazione costante, tra l’altro sollecitata dallo stesso mezzo, per cui devi esprimerti immediatamente o a favore o contro. O sei con me o sei contro di me; se sei contro di me sei il nemico, sei la persona che può in qualche modo minacciare l’ordine costituito. Basti pensare a come vengono trattati i giovani: nel momento in cui non aderiscono a degli schemi preconfezionati vengono visti come delle devianze, e quindi come qualcuno verso cui esercitare una sorta di paternalismo. Il discorso che viene fatto sull’educazione sentimentale mi pare vada in quella direzione.
Anche la sinistra ha delle responsabilità; se penso a esempio al discorso sulla sicurezza creato in modo mainstream, non tanto dalla destra, ma addirittura dalla sinistra al potere. Questa è una cosa che spesso non ci ricordiamo. Nel 2007, dopo l’omicidio Reggiani a Roma, ci furono le prime dichiarazioni politiche, anche da parte di sindaci di sinistra, sulla sicurezza urbana, il senso di sicurezza all’interno delle città, i Daspo urbani, il controllo, l’idea di togliere dai centri gli elementi allogeni, alieni, le persone senza fissa dimora. Questo, appunto, non è stato un impulso della destra oggi al potere, ha almeno una quindicina d’anni di storia e viene proprio da lì, dal senso di sicurezza che bisognava dare ai cittadini, anche per aver un ritorno dal punto di vista elettorale.
Sicurezza potrebbe essere una parola interessantissima; fino a 25, 30 anni fa la sicurezza di cui si discuteva era la sicurezza sul lavoro, la sicurezza sociale. Una sicurezza che lo Stato deve garantire ai lavoratori e alle lavoratrici, nel senso sociale più ampio, una dimensione necessaria che oggi invece manca. La sicurezza è stata poi risemantizzata come sicurezza urbana, ordine pubblico, polizia, controllo sempre degli stessi elementi. Questo discorso sulla sicurezza ha spinto verso la profilazione etnica, per cui si individuano automaticamente e immediatamente quali possono essere i soggetti potenzialmente pericolosi dal colore della pelle. Si tratta di un discorso che ha attecchito purtroppo anche a sinistra, perché bisognava in qualche modo dare delle garanzie alla cittadinanza, tuttavia utilizzando un lessico,un vocabolario di destra.
La sfida oggi dovrebbe essere quella di trovare un vocabolario alternativo e abbandonare quelle forme e quel lessico che tanto danno hanno fatto a sinistra.
MP: L’ultima domanda per chiudere la nostra riflessione.
Tony Morrison, anzi, vorrei dire la mia amatissima Tony Morrison dice: “Le immagini racchiuse nella mente e il linguaggio curato hanno il potere di sedurre, rivelare, controllare.
Sono in grado di aiutarci a perseguire il progetto umano, cioè il restare umani e fermare la disumanizzazione e l’estraneazione degli altri”.
Quindi io ti chiedo: come è possibile educare le menti a tale progetto di umanizzazione? Da linguista, quali sono gli strumenti che abbiamo?
FF: È una domanda importantissima, grazie per questa citazione di Tony Morrison. Da linguista mi verrebbe da dire qualcosa l’abbiamo già anche detto: essere critici il più possibile verso un linguaggio, un lessico che sembra naturalizzato e normalizzato, ma che normale non è, che è espressione di un percorso voluto per orientare politicamente le nostre menti, non soltanto il nostro linguaggio. Quindi la critica a tutto campo e non soltanto a destra, ma anche quando questo linguaggio viene utilizzato dalla cosiddetta sinistra. Dire a chiare lettere che, no, vogliamo qualcosa di alternativo, un lessico diverso.
Pensiamo al lessico che usiamo per le migrazioni: oggi è ricalcato sull’agenda della destra -controllo dei confini, di nuovo sicurezza, etc. Addirittura mi è capitato di sentire delle organizzazioni della società civile, quindi potenzialmente alternative al discorso mainstream di destra, parlare di centri di espulsione all’interno del discorso sull’accoglienza; reiterando così un ossimoro, nel senso che o parliamo di accoglienza o parliamo di espulsione. Evidentemente sono due cose che non funzionano. Siccome questa destra al potere fa rientrare tutto sotto lo stesso campo semantico, ci si casca anche dal punto di vista delle organizzazioni della società civile. Soprattutto quelle che, bisogna avere anche il coraggio di dirlo, hanno fatto un mestiere della loro vocazione, facendosi finanziare i progetti dell’accoglienza secondo le linee del governo di turno.
Ė chiaro che non si mette in discussione il lessico, se quel lessico ti serve
per pagare i tuoi dipendenti, per far sì che la tua cooperativa, il tuo soggetto in qualche modo riceva un finanziamento. Anche questo purtroppo ci ha danneggiati nella critica al linguaggio, al discorso. E’ necessario un atteggiamento critico a 360°, io direi laico.
In un dibattito sempre molto polarizzato, alla ricerca costante del nemico, dove bisogna dire tutto e subito, lo spazio di discussione è ridotto. Con i social media quasi tutto quello che diciamo non appartiene più soltanto allo spazio privato, alla sfera privata, ma diventa immediatamente pubblico e quindi anche il nostro cosiddetto “capitale reputazionale” o sociale può subire dei danni. Se dico la cosa sbagliata nel momento sbagliato, questa cosa mi può danneggiare molto.
Oltre alla dimensione critica, la conoscenza dei mezzi con cui comunichiamo è dunque assolutamente fondamentale.
Ci sono dei libri importanti oggi che ci insegnano a stare attenti, quando comunichiamo tramite i social media: “L’antidoto” di Vera Gheno, ma anche “La regola del gioco” di Raffaele Alberto Ventura sono dei libri che spiegano esattamente quali rischi corriamo e come evitarli.
Io dico però anche consapevolezza del mezzo linguistico, e cioè sapere che non si può dire tutto in qualsiasi contesto; non bisogna censurare la lingua, bisogna avere una conoscenza dello spettro e dei registri linguistici. Questa è l’educazione democratica di Tullio De Mauro, ovvero i parlanti devono essere responsabili e consapevoli di tutto lo spettro linguistico; tuttavia, devono anche utilizzare certe cose nei contesti appropriati e non ovunque, sempre, sbracando. Altrimenti si arriva a quello che dicevamo prima, la sguaiatezza, ma anche si depotenzia moltissimo quello che diciamo, il nostro stesso ragionamento. Dobbiamo anche esercitarci quindi in questo senso e certamente dobbiamo costruire delle alleanze, dei modi per costruire un lessico alternativo.
Io penso anche al linguaggio razzista, razzializzante: non si tratta soltanto di evitare di dire alcune parole, come la N-Word, che certamente ha un peso storico e semantico assolutamente nocivo da tutti i punti di vista. Bisogna essere consapevoli che le parole feriscono moltissimo: dico questo anche ai miei colleghi che a volte le dicono a voce alta dicendo “Eh, ma io tanto lo faccio a scopo didattico” all’interno di un contesto pubblico; le persone percepiscono comunque un’imposizione violenta, come qualcosa che devono subire da chi esercita un potere.
Bisogna quindi essere attenti all’uso delle parole, in una società dove finalmente le tante appartenenze hanno voce, dove non sono schiacciate da quella unica della maggioranza e quindi hanno anche la libertà di dirti che quella parola non devi dirla, non vogliono sentirla pronunciare, è violenta.
Inoltre serve costruire un discorso aperto e sapere che la maggioranza privilegiata deve mettersi in discussione, deve lasciare la parola, e avere il coraggio di analizzare criticamente la propria, anche se siamo in buona fede.
Come dice Judy Butler, anche solo evocando una parola, anche solo dicendola a voce alta, possiamo riattivare tutto quello che si porta appresso: le discriminazioni, la razializzazione. Bisogna essere consapevoli che il linguaggio ha questo peso.
E poi bisogna anche analizzare altri livelli di discorso; e qui il dibattito deve farsi più maturo, dal mio punto di vista. Penso ad esempio al fatto che abbiamo quello che si chiama “ingiustizia discorsiva”: un fenomeno che viene analizzato in linguistica da chi si occupa di pragmatica. Claudia Bianchi ha scritto un bel libro, “Hate speech” a questo proposito un paio d’anni fa, ovvero rispetto al fatto che se io appartengo alla maggioranza, il peso di quello che dico è sicuramente sempre maggiore di quello della minoranza. Ad esempio, Paola Egonu a un certo punto dice di aver subito razzismo e se ne lamenta pubblicamente; lo dice a voce alta. Molte risposte da parte della maggioranza erano di questo tenore – ma non sta esagerando, l’hai presa male, vuoi metterti in luce? sei isterica? – schiacciando il potere di rivendicazione di quel gesto. Anche perché poi Paola Egonu o si ritira in qualche modo dal discorso dicendo che è troppo, è ferita e non ci sta, oppure cerca in qualche modo di dire no, non è vero, e che stava dicendo un’altra cosa; ponendosi sulla difensiva, giustificandosi. Quando invece dovrebbe essere il contrario: dovrebbe essere la maggioranza a doversi giustificare e anche giustificare la sua lettura molto parziale di quello che viene detto.
E quindi, anche per andare incontro alle parole di Tony Morrison, dobbiamo avere una grandissima capacità di ascolto. La parola ascolto deve essere al centro dei nostri tentativi pubblici, di fare politica, di fare ragionamento pubblico, di fare comunità. Ma deve anche essere al centro della comprensione dei bisogni delle altre persone, attraverso la comprensione del linguaggi degli altri. Altri che potrebbero anche – se razzializzati – dire che non vogliono interagire con te, che hanno bisogno di crearsi uno spazio proprio politico forte, che sia rivendicazione vocale forte.
Poi però noi dobbiamo creare tutti quanti insieme delle alleanze, questo sì. Io credo che questo sia fondamentale per evitare di andare verso l’identitarismo, perché poi in questo vince la destra; se ci dividiamo in tante identità l’una contro l’altra, in rivendicazioni che cercano di portare a galla dei bisogni, ma che non dialogano, diamo spazio alla destra. Dobbiamo creare delle alleanze discorsive. Dal punto di vista della maggioranza, diciamo così, dobbiamo fare un passo indietro e avere una visione storico-critica del linguaggio che utilizziamo; dal punto di vista delle minoranze vocali, finalmente vocali e rappresentate – e speriamo che lo siano sempre di più – è necessario, dopo un momento di rivendicazione politica forte, provare a costruire dei ponti che permettano di proporre un’agenda alternativa a quella della destra, ovvero non utilizzare più alcune parole o utilizzarle in modo completamente diverso, risemantizzandole.
Il problema è che non abbiamo oggi un soggetto politico che ci aiuti a mettere insieme tutti i pezzi; ci si prova, e lo lo dimostrano le piazze di qualche giorno fa. Tuttavia, bisogna capire come far diventare questo un progetto politico in grado di mettere insieme tanti percorsi, tante comunità; un progetto che estenda i diritti e non parli del diritto come una coperta corta, se li do a te, li tolgo a qualcun altro. Questo è di nuovo un terreno che lasciamo alla destra.
Invece dobbiamo essere consapevoli che i diritti vanno estesi, garantiti e che tutti ne sono titolari allo stesso modo, altrimenti veramente rischiamo di andare verso l’identitarismo e non costruiamo ponti, ma muri. Ogni muro è un regalo che facciamo alla destra che, tra l’altro, se li costruisce evidentemente da sé.
Chiudo dicendo che dobbiamo essere proattivi, non soltanto nel criticare, nel decostruire il linguaggio razializzante, omofobo, misogino, patriarcale; sono discorsi che sentiamo benissimo in questi giorni. Dobbiamo creare veramente una nuova capacità di ascolto, una nuova capacità di argomentare con argomenti forti, solidi, nostri; una nuova capacità di trovare delle parole che esaltino anche la fragilità, fammela dire così. Non dobbiamo aver paura della fragilità, quella sociale, politica, umana, perché la fragilità non è una colpa.
Il discorso intorno alla povertà va in quella direzione lì; quanto discorso d’odio vediamo verso le persone povere – non verso la povertà, ma verso le persone povere? La povertà diventa una colpa individuale da cui forse riesci a dirimerti. Dobbiamo invece affrontare le fragilità come parte del corpo sociale, e prendercene cura; la parola cura deve essere al centro delle relazioni e del linguaggio.
Mi piace moltissimo la parola terapeuta, anche in senso etimologico. Ne parla Umberto Curi in un suo libro, ne ho parlato io nel libro “La farmacia del linguaggio. Parole che feriscono, parole che curano” e nel libro “Tovare le parole”. Il terapeuta vero non è quello che somministra delle soluzioni, dei farmaci; il terapeuta è la persona che si mette al servizio, in ascolto, da un punto di vista anche etimologico. E allora la terapia sociale che dobbiamo costruire non è soltanto quella di trovare delle soluzioni precostituite, una cura farmacologica della società, se mi permetti la metafora; ma piuttosto quella di mettersi in ascolto, al servizio e far emergere le fragilità, le violenze, i conflitti provando a decifrarli tutti insieme in modo diverso, e soprattutto ad accogliere tutte le persone all’interno di questo discorso.
Per trovare un lessico alternativo nuovo, che in qualche modo scomponga la retorica legata a popolo, patria, nazione, famiglia che stiamo subendo potentemente, e che ci permetta di risemantizzare alcune parole chiave che abbiamo perduto, smarrito. Un lessico alternativo che non vada nella direzione di individuare un nemico o delle identità in conflitto, ma che vada nella direzione di costruire un diritto e un ragionamento che coinvolga, e che faccia convivere le differenze in un progetto politico che sia in grado di costruire processi che vadano oltre al linguaggio.
MP: Ti ringrazio Federico, sei stato prezioso, sei prezioso. Ti ringrazio a nome di tutte, tutti e tuttu, dei volontari, gli attivisti del del Naga.