Valter Tanghetti
Etnopsicologo, Cooperativa sociale “Il Mosaico”

Un sistema che “cura”
prendendosi cura
intervista a Valter Tanghetti
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Emilia Bitossi: Ciao Valter Tanghetti, siamo contenti di averti di nuovo con noi. Sei venuto come relatore al nostro convegno MALAccoglienza – Una giornata di analisi e riflessioni sul sistema di accoglienza di persone richiedenti asilo e rifugiate in Italia lo scorso marzo alla Fabbrica del Vapore a Milano, dove hai fatto una bellissima relazione sul tema della fragilità e della salute mentale all’interno dei Sistemi di Accoglienza e Integrazione (SAI), come viene gestito e come è organizzato in particolare il vostro SAI in Valle Trompia.
Avevamo dei tempi un po’ contingentati e abbiamo visto che sicuramente sarebbe stato utile approfondire di più, proviamo a farlo quindi con questa newsletter dell’Osservatorio del NAGA, lo stesso gruppo che ha organizzato il convegno. Abbiamo la possibilità di approfondire ulteriormente a partire dal tuo intervento, alcune domande si ripeteranno, altre saranno nuove. Quindi io direi se ti vuoi presentare, ti ringrazio e cominciamo.
Valter Tanghetti: Grazie intanto Emilia a te, agli amici del Naga. Sono Valter Tanghetti, psicologo o, se qualcuno preferisce, etnopsicologo – perché le sigle nel nostro campo si sprecano. Sostanzialmente il grosso del mio lavoro come psicologo per la cooperativa Il Mosaico è il lavoro appunto con i migranti e in particolare con i richiedenti asilo e i titolari di Protezione internazionale, quindi con i rifugiati. In particolare questa fetta, che è la più importante del mio lavoro, la faccio all’interno del SAI Valle Trompia in provincia di Brescia. L’ente titolare e La Comunità Montana di Valle Trompia e l’ente che gestisce poi l’operatività è la mia cooperativa Il Mosaico, insieme a un’altra cooperativa che si chiama La Rete.
EB: La prima domanda è molto generale ma può essere utile come introduzione, cioè cosa vuol dire salute mentale? Cosa si intende per salute mentale? Una domanda un po’ difficile…
VT: No, no, è molto importante. Adesso, senza citare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute mentale non è la sola assenza di una malattia, ma una vera salute, e salute mentale in particolare, vuol dire uno stato di benessere pervasivo che riguarda tutto ciò che il funzionamento psichico della persona permette. Quindi vuol dire stare bene con se stessi, vuol dire stare bene nelle relazioni, vuol dire stare bene all’interno di una comunità, sentirsi attivi e quant’altro. Quindi è, diciamo così, una prospettiva alta, quella di raggiungere una vera e propria salute mentale, quindi non solo come assenza di sintomi o di malattia. E questo a maggior ragione vale per la salute mentale, non solo per la salute.
EB: Grazie. Mi sembra che sia una risposta molto precisa. L’altra domanda riguarda l’incidenza di sofferenza psichica e fragilità, in percentuale naturalmente, fra le persone che vengono accolte. E poi se è una questione di genere, cioè più donne, più uomini?
VT: Allora, la domanda è pertinente, la risposta è un po’ più difficile. Se andiamo a vedere la letteratura e quello che ci dicono le ricerche, troviamo veramente delle risposte molto diverse tra di loro: alcune ricerche tendono a sottolineare una fragilità psichica decisamente più alta rispetto alla media, e altre ricerche sembrano non dire questo. Ovviamente questa diversità dipende da tanti fattori metodologici, a partire appunto da che cosa significa salute mentale. Chiaramente se ci rifacciamo alla domanda che mi hai fatto prima, chi di noi oggi si può dire in salute? Quindi capisci che questo può fare anche la differenza rispetto alla risposta a questa domanda.
Dal 2018 al 2023, abbiamo svolto una ricerca interna, anche se preciso che non siamo ricercatori, in cui abbiamo raccolto dei dati abbastanza significativi nei 6 anni in cui abbiamo gestito il SAI Valle Trompia. Abbiamo visto all’interno di questo range temporale che le persone che hanno avuto bisogno, diciamo così, di rivolgersi o allo psicologo o ai servizi comunque di psicologia o di psichiatria sono state il 18 per cento sulle circa 500 persone ospitate – rappresentiamo infatti il SAI più grande della provincia di Brescia. Le persone all’interno di questo range che hanno avuto invece bisogno di accedere a dei servizi di psichiatria, quindi con un problema significativo da un punto di vista psichico, sono “solo” il 4 per cento. I dati in nostro possesso si riferiscono a un SAI per ordinari, principalmente adulti maschi, quindi al tema del genere, per esempio, mi diventa difficile risponderti. I nostri dati sembrano testimoniare un’incidenza non così elevata come possono sottolineare altre ricerche: il 4%, se dovessimo guardare la popolazione italiana – adesso non ho i dati sottomano – sembra essere non troppo lontano. Mentre chiaramente il 18 per cento vuol dire persone che hanno una forma di sofferenza psichica ma non di tipo psichiatrico. Questi sono i dati in nostro possesso.
EB: Mi verrebbe da dire che ricalca quello che succede anche con la popolazione italiana, cioè che c’è un disagio molto forte generale e in un contesto evidentemente che non è più così favorevole per una vita serena. Se il disagio c’è fra gli italiani, come può non esserci fra le persone immigrate, visto che oltretutto vengono sperando di avere una vita un po’ più semplice e si accorgono che qua è estremamente complessa e non sempre favorevole nei loro confronti, ma con tanti ostacoli? Comunque non sappiamo donne e uomini rispetto alla vostra indagine, quello che ho sentito è che di solito è maggiore nelle donne per ragioni multiple che non è però il focus di questa intervista.
L’altra domanda riprende quanto dici anche nel tuo intervento a La Fabbrica del Vapore secondo me molto interessante, cioè il quando si “ammala” una persona migrante, che sia richiedente asilo o già con una protezione. Già da prima del suo arrivo in Italia? Arriva perché è già ammalato o si ammala qua per tutte le vicissitudini che deve affrontare?
VT: Anche questa è una domanda a cui non è semplice rispondere perché, almeno noi, ci muoviamo all’interno di una visione complessa del fenomeno migratorio. Dobbiamo evitare assolutamente le semplificazioni, i determinismi, le risposte semplici. I fattori che sono in gioco nella migrazione sono molteplici e tutti concorrono anche al benessere o al malessere psicologico di una persona. È in dubbio che ci siano persone che arrivano già con una sofferenza psichica, cioè la sofferenza psichica era già presente nel Paese di origine. Rappresentano ovviamente una minoranza, la sofferenza emerge a livello clinico quando incontriamo la persona e ci facciamo raccontare la sua storia, cerchiamo di approfondire, di capire com’era la sua vita nel paese di origine, se erano già presenti delle sofferenze. Capita che le persone ci dicano “Sì, già nel mio Paese stavo male per questi motivi”. Al di là dell’eziopatogenesi, cioè dell’origine del perché e i significati che vengono attribuiti al loro stare male, ci sono molte persone che già stavano male da un punto di vista psichico ma non sono sicuramente la maggioranza.
Una grossa fetta delle sofferenze invece accade o durante il viaggio, e quando parliamo di viaggi, ovviamente parliamo di viaggi che spesso durano anni, non più settimane o mesi come poteva essere in passato. Qua il fenomeno sta cambiando, quindi ovviamente il tema delle rotte, della permanenza in Libia, di che cosa significa attraversare la rotta balcanica, di che cosa significa essere imprigionato in Libia, le torture. Purtroppo questi racconti fanno parte spesso dell’esperienza delle persone che ci raccontano il loro viaggio migratorio. Quindi sicuramente c’è tutta una tematica legata all’esposizione e all’aver subito delle violenze di diverso genere, di diversa intensità durante il percorso. Ma le condizioni dell’accoglienza fanno la differenza anche da un punto di vista della salute mentale. Per cui è chiaro che una buona accoglienza, con tutto ciò che può voler dire buona, abbassa la probabilità che le persone stiano male, mentre una pessima accoglienza ovviamente la alza. C’entriamo anche noi, e noi intendo dire non solo noi operatori, ma il sistema di accoglienza. Ne abbiamo parlato appunto alla Fabbrica del Vapore, gli interventi fatti la mattina anche da giuristi, sociologi e altri sottolineavano questo aspetto: cosa significa entrare in quello che io ho chiamato il labirinto, un labirinto che è fatto di leggi, di procedure, di meccanismi che rischiano di intrappolare o di far perdere la persona, appunto, all’interno di questo labirinto. Quindi c’entriamo molto anche noi sul benessere o il malessere psichico delle persone.
EB: Certo, questo è importantissimo. Lo scopo del convegno era proprio mirato a cosa si può fare per rendere un’accoglienza migliore rispetto a quella che abbiamo.
Probabilmente non tutte le persone sanno che esiste una distinzione del sistema SAI tra ordinari e fragili. Questo significa che esistono SAI per persone che non sono ritenute estremamente fragili o fragili e quindi che non hanno bisogno di cure particolari. Naturalmente questo non riguarda solo disagi psichiatrici, ma anche di altro tipo che magari è difficile riuscire a seguire e prendere in carico in un SAI per ordinari. I SAI per persone fragili purtroppo sono pochissimi in giro per l’Italia e le domande molto spesso restano inevase. Il servizio centrale non riesce a inserirli e questo può essere un grosso problema. Ho visto che voi invece nel SAI per ordinari accogliete persone sia psichiatriche che fragili, e quindi la domanda è come mai – un’ottima cosa vista appunto la carenza di SAI dedicati – e come vi organizzate e anche che metodo utilizzate. Parli per esempio di un metodo francese se avessi voglia di darcene una spiegazione…
VT: Allora, quello che dici Emilia è verissimo. Prima di tutto non dimentichiamoci mai che il nostro sistema di accoglienza – ne abbiamo parlato appunto alla Fabbrica del Vapore – purtroppo è ancora fortemente centrato sui cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinari (CAS), che dovrebbero essere straordinari ma che poi ormai vanno avanti e ovviamente tutti noi ci auspichiamo un superamento della straordinarietà. Nei SAI non voglio dire che vada tutto bene, ma sicuramente abbiamo visto che le criticità maggiori accadono all’interno dei CAS, che sono stati tra l’altro definanziati, le risorse economiche a disposizione dei CAS sono state ridotte nel corso degli anni e quindi garantire tutti i servizi diventa molto difficile se non impossibile.
Parlando dei SAI, è vero quello che hai detto tu prima, purtroppo il numero dei SAI specifici per vulnerabili o SAI disagio mentale, come veniva chiamato una volta, sono ridotti. Ne sono aumentati negli ultimi due/tre anni, per esempio penso alla mia provincia che ne aveva uno gestito da una cooperativa, adesso ne ha introdotto un secondo, ma sono comunque numeri bassi.
Anche quel famoso 4,5 per cento che davo prima rappresenta un dato contenuto, ma capiamo bene che il numero di posti messi a disposizione non c’è. Allora lì la domanda che ci siamo posti e che ci poniamo ancora oggi: diventare un SAI disagio mentale o attrezzarci al nostro interno affinché comunque le persone che arrivano e che manifestano una fragilità abbiano la possibilità di avere una risposta? Noi per ora abbiamo optato per la seconda ipotesi, quindi ci siamo attrezzati come SAI ordinari, ma anche per avere un servizio specifico per le fragilità psicologiche e psichiche delle persone. Abbiamo fatto questo perché, lungi da me rappresentare un modello per chi che sia, ogni realtà deve guardare al proprio interno e capire. Per noi è stato possibile fare questo perché avevamo già un servizio etnoclinico transculturale gestito dalla mia cooperativa all’interno, prima ancora che gestissimo il SAI. Quindi c’erano delle competenze, un’équipe formata da cinque/sei professioniste che si sono specializzate nel lavoro sulle fragilità psichiche dei migranti. Quindi per noi è stato possibile pensarlo all’interno, mentre per un SAI, che magari queste competenze non le ha al proprio interno o nell’organizzazione di cui fa parte l’ente che gestisce il SAI, diventa anche difficile attrezzare un servizio di questo tipo.
La seconda risposta è che abbiamo fatto questa scelta perché i centri di salute mentale (CPS) spesso non sono attrezzati, non hanno delle competenze specifiche, psicologiche, psicoterapeutiche interne per affrontare il disagio psichico dei migranti o, meglio, lo affrontano come se avessero davanti un italiano, quindi in un modo universalistico perché risponde a un principio di una salute mentale o di una malattia mentale universale identica da tutte le parti.
Un altro motivo poi per cui abbiamo fatto questa scelta in corso d’opera è che – questo secondo me è un elemento centrale – proprio perché la salute mentale non è solo o non la si fa solo nello studio dello psi ma viene fatta appunto all’interno di tutto quello che è il sistema di accoglienza, avere un servizio interno ci ha permesso di fare tutta una serie di cose che con un servizio esterno sarebbe stato, non voglio dire impossibile, ma molto difficile. Dal formare gli operatori, sensibilizzare gli operatori, al costruire degli strumenti interni per intercettare il disagio psichico il prima possibile. Tutta una serie di cose che noi abbiamo potuto fare proprio perché eravamo un servizio interno al SAI.
EB: Certo. Ti anticipo e lo anticipo anche al nostro pubblico che ci ascolta che vorremmo approfondire ancor di più in altra sede tutti questi temi. L’altra domanda era quella sul metodo francese, sull’approccio narrativo, l’approccio teatrale.
VT: Allora, prima di tutto noi abbiamo strutturato un’équipe specifica per il tema della salute e del benessere psichico. È un’equipe che non è fatta solo da psi perché all’interno della nostra equipe c’è il responsabile del servizio, un’operatrice preposta che fa da ponte tra le persone che hanno una fragilità, in particolare una fragilità psichiatrica, e i servizi territoriali come il CPS, perché ovviamente il nostro lavoro si integra con quello dei servizi territoriali. Abbiamo all’interno la figura psi, che è il sottoscritto che si è formato in modo particolare alla scuola etnopsi di Roma quindi con un modello preciso, e un’antropologa culturale che si è formata alla scuola di Marie Rose Moro in Francia. Quindi c’è una complessità, abbiamo un supervisore psichiatra e fortunatamente la mia cooperativa ha anche un servizio di mediazione linguistico culturale. Quindi i mediatori li abbiamo, diciamo così, all’interno e alcuni li abbiamo anche formati al lavoro specifico in ambito clinico. Sul metodo, per essere molto sintetici, noi tendiamo a lavorare principalmente attraverso quello che viene chiamato in Francia, perché è stato pensato in Francia, in particolare da Tobie Nathan, il dispositivo etnopsi. Vuol dire non lavorare con colloqui clinici individuali ma in un contesto in cui sono presenti più figure e più persone: il paziente, l’operatore di riferimento, lo psicologo, l’antropologo, il mediatore linguistico culturale e laddove lo si ritiene utile anche delle persone che il paziente stesso può richiedere presenti. Questo dispositivo, come viene chiamato da Tobie Nathan e poi ripreso da gran parte delle scuole francesi e anche tradotto anche da alcune scuole italiane, permette tutta una serie di azioni terapeutiche che sarebbero più difficili da fare individualmente. Parlavo appunto della scuola che ho frequentato, la Scuola Etno-Sistemico-Narrativa di Natale Losi di Roma, che ha a sua volta delle specificità, per esempio lavora molto sulla memoria, sulla memoria autobiografica ma anche sulle memorie collettive. E come dicevo prima, una cosa che noi riteniamo fondamentale è che la salute mentale non la si fa solo all’interno della seduta, viene fatta in tutte le azioni che quotidianamente si rivolgono alla persona. Da quando viene fatta l’accoglienza, il primo colloquio iniziale, a quando la persona viene accompagnata. È un sistema curante, non solo la persona o il dispositivo etnopsi in senso stretto. Ecco, ci teniamo a sottolineare questo aspetto.
EB: Ti ringrazio moltissimo. Questo aspetto è molto importante secondo me.
VT: Ti confermo la mia disponibilità volentieri a partecipare agli atti del convegno e sono io che ringrazio voi e il Naga per tutto quello che fa e che ho sempre saputo faceva, ma ho avuto modo anche incontrandovi e parlando con voi di sentire la bontà di quello che fate.