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I dati – Febbraio 2021

IN GALERA PORTE CHIUSE – la doppia pena in tempo di pandemia
(dai volontari e dalle volontarie del Gruppo Carcere del Naga)

Da quando la pandemia è scoppiata, stiamo vivendo uno strano periodo che ha toccato il nostro modo di agire, sentire, capire. Dall’inizio, i media hanno riportato continuamente numeri di contagiati e di morti. Numeri che, a un certo punto, hanno coinvolto anche il mondo del carcere. Ma di che cosa si è scritto? Alcuni articoli, a caldo, hanno raccontato le rivolte scoppiate in diverse prigioni italiane nel marzo 2020 – che hanno causato 14 vittime in circostanze ancora tutte da chiarire -, qualche commento è ritornato sull’annoso problema del sovraffollamento e poi, di nuovo, il carcere è tornato a essere un mondo a parte, periferico, nel disinteresse della cosiddetta “società civile”. C’è un non detto in questo atteggiamento: la responsabilità non è nostra se in tanti finiscono lì dentro. Ma siamo proprio sicuri che non lo sia? Per esempio, parlando degli stranieri, si tratta spesso di persone che scivolano giù per una china che le porta a commettere reati che potrebbero essere evitati se non ci fossero norme escludenti che le spingono all’emarginazione e all’impossibilità di far parte della nostra società.

Questo “dentro” è tornato così a essere argomento per gli addetti ai lavori e per chi vi entra come volontario. Ad esempio i volontari del Naga che da oltre vent’anni operano nelle tre carceri milanesi per adulti e che possono raccontare una storia un po’ diversa di questo mondo, a cominciare dai numeri. Sono 53.364 i detenuti nelle carceri italiane, contro una capienza di 50.562. 17.300 di questi sono stranieri. Nelle tre carceri milanesi sono rinchiusi 3.400 ristretti (di cui 1300 ca. stranieri) per 2.932 posti disponibili. Nemmeno gli interventi emergenziali adottati a causa della pandemia hanno risolto il sovraffollamento endemico così che in una cella possono stare 2, 3, 5 ecc. detenuti secondo le esigenze del momento.

Se il virus non è deflagrato come una bomba è perché, accanto alle misure sanitarie, sono state adottate e sono ancora in essere severe forme di chiusura all’interno (ritorno al regime delle celle chiuse che era stato superato da anni) e verso l’esterno, con divieto ai colloqui con i familiari e pesante controllo anche di quelli con gli avvocati. Le attività trattamentali (corsi di formazione, istruzione, lavorativi, ecc.) che concretamente adempiono al dettato dell’art. 27 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e che rappresentano uno dei principali diritti dei reclusi e delle recluse, sono praticamente scomparse o sono presenti in modo molto limitato.

Tutto l’accesso del ricco e variegato mondo del volontariato, enorme risorsa per i ristretti, è stato interdetto. Da quasi un anno ormai anche noi volontari del Naga, salvo qualche eccezione, ci troviamo – a San Vittore, a Bollate come a Opera – davanti a un portone sbarrato che tronca ogni nostra attività e ogni nostro legame con gli stranieri ristretti. E questa parte, particolarmente rilevante della popolazione carceraria a Milano, è quella che soffre maggiormente delle attuali chiusure: per le loro difficoltà di comunicazione linguistica (in italiano si svolgono i loro iter legali e le loro complicate vicissitudini burocratiche per la permanenza sul suolo italiano), perché non possono contare in un alto numero di casi su una rete esterna di supporto (familiari, amici nelle vicinanze), perché spesso versano in condizioni di particolare indigenza. I colloqui con noi del Naga sono per loro, in questi casi, indispensabile tramite con l’esterno, la loro assenza un vuoto durissimo.

Questa sospensione, come una cappa nera, ha riguardato ogni attività. Si è interrotto anche ogni contatto – e quindi ogni informazione – con le figure istituzionali del carcere.

Da quanto siamo riusciti a sapere, si è consentito di fare i colloqui via skype e di usare le mail per inviare messaggi ai familiari, ma sono stati interventi limitati, contingenti e contingentati e non hanno riguardato la comunicazione con i volontari. Si ha il timore inoltre che questi benefici possano essere considerati eccezionali in rapporto alla situazione, non strutturali, quindi a rischio di essere tolti, per qualsiasi motivo, una volta che si sarà tornati alla normalità. Tutto quello che la pandemia ha portato nel mondo libero in termini di sviluppo e accesso a strumenti tecnologici di comunicazione digitale, in carcere ha visto un muro, allargando ancora di più la forbice tra “dentro” e “fuori”, peraltro già ampia, data la endemica arretratezza tecnologica che contraddistingue la gestione penitenziaria.

Particolarmente drammatica è poi la situazione per quanto riguarda l’assistenza legale.

 Gli avvocati penalisti con cui siamo in contatto denunciano la difficoltà di esercitare compiutamente il diritto alla difesa, un ulteriore e gravissimo effetto di compressione dei diritti costituzionali dei detenuti. Si sono infatti molto ridotte le possibilità di un colloquio riservato con i loro assistiti, quel colloquio che resta momento essenziale e indispensabile per capire la persona, per instaurare il giusto rapporto, e che in nessun caso è compensato dal colloquio telefonico o comunque in remoto. È inoltre più difficile avere appuntamento per i colloqui in tempi brevi (oggi un avvocato può fissare al massimo due colloqui in un giorno, meno della metà di prima della pandemia) poiché le attuali misure di sicurezza limitano le presenze negli spazi appositi e accorciano necessariamente i tempi stessi di colloquio. Inoltre la pressione da parte del personale per il rispetto dei tempi concessi turba fortemente il dialogo tra avvocato e assistito. Nel frattempo sono cambiate anche tutte le procedure processuali, a partire dall’udienza che ora si svolge in remoto penalizzando profondamente la condizione del detenuto poiché, di nuovo, ostacola il rapporto diretto di vicinanza tra avvocato e assistito che è fatto anche di espressioni, di gesti, di commenti, di reazioni annientate dalla distanza che rende difficile all’avvocato sapere quanto stia realmente capendo il detenuto di ciò che succede. Per i detenuti stranieri a ciò si aggiunge la difficoltà di dover spesso ricorrere alla presenza – sempre in remoto – di un mediatore linguistico: presenza ingombrante, in molti casi inadeguata, che spesso finisce per complicare ulteriormente anziché facilitare la comunicazione.

Se torniamo alle condizioni dentro il carcere, non si può non sottolineare quanto la promiscuità esistente nelle celle sovraffollate e la tensione generata dalla pandemia in un ambiente già sottoposto a un regime di permanente controllo portino a esasperare la paura del contagio, soprattutto nei soggetti più vulnerabili: chi ha un percorso di tossicodipendenza, chi ha in atto altre patologie, i molti che soffrono di disturbi psichiatrici. Restare in carcere – nel carcere impenetrabile del lockdown – acuisce la loro sofferenza. Uscire, usufruendo delle misure di alleggerimento delle pene meno gravi recentemente introdotte per far fronte all’emergenza, risulta per gran parte degli stranieri un traguardo irraggiungibile data la loro mancanza di domicilio idoneo e il loro status di irregolarità.

Ecco, questo è il “loro mondo”, la loro condizione. Giornate vuote, inutili, private degli incontri con noi che possono interrompere quel loro tempo lunghissimo al quale troppi troppo spesso cercano di sfuggire con atti di autolesionismo anche mortali. Non si può restare indifferenti a questa doppia pena, al suo così indefinito protrarsi. Il nostro impegno non si è fermato, si è solo modificato, cerca altre forme. Non rinunciamo al nostro diritto di entrare e al loro di ritrovarci.

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