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Intervista – Video intervista a Marco Puntin

Marco Puntin, Country Director di Emergency in Afghanistan

Ascolta l’audio originale dell’intervista.

In diretta da Kabul: parla Emergency

DF: Ciao a tutti, Benvenuti a questa nuova video intervista per l’Osservatorio del Naga. Oggi diamo il benvenuto a Marco Puntin, coordinatore dei progetti sul campo di Emergency in Afghanistan, in collegamento da Kabul. Lasciando poi a Marco l’onore e l’onere di presentarsi, comincerei ricordando che Emergency ha 3 ospedali in Afghanistan, precisamente a Kabul, Anabah, e Lashkar-gah, e 44 posti di primo soccorso, di cui Marco ci spiegherai meglio il ruolo. Emergency è presente in Afghanistan dal 1999 con oltre sette milioni di persone curate. Come avete vissuto questi ultimi vent’anni di occupazione occidentale, se così la possiamo chiamare, e quali sono stati i cambiamenti che secondo voi ha innescato?

MP: Ciao a tutti, grazie innanzitutto. Vi parlo da Kabul in questo momento. 
Come dicevi siamo presenti in Afghanistan dal 1999, il primo ospedale che abbiamo aperto si trova ad Anabah nel Panjshir, in origine era un ospedale esclusivamente per le vittime di guerra, per fortuna negli anni siamo riusciti a trasformarlo sviluppando all’interno una maternità, una pediatria e anche una chirurgia generale – grazie al fatto che la provincia del Panjshir non è stata toccata eccessivamente dal conflitto negli ultimi anni fino a purtroppo poco più di un mese fa. Nel 2001 abbiamo aperto l’ospedale di Kabul che è tutt’ora un ospedale solo per war victims, feriti di guerra. Il terzo ospedale che abbiamo aperto è quello a Lashkar-gah nella provincia dell’Helmand, nel sud del Paese, nel 2004, per vittime di guerra con l’eccezione che ammette anche pazienti sotto i 14 anni vittime di traumi civili, come per esempio incidenti stradali. Le 44 cliniche (First Aid Post) sono di diverso tipo: per quanto riguarda le aree di Kabul e Lashkar-gah sono principalmente, se non essenzialmente, dei centri di primo soccorso per trauma (traumi civili ma soprattutto traumi per feriti di guerra) in cui i pazienti arrivano nel centro di primo soccorso, vengono stabilizzati dal nostro personale sanitario e tramite le nostre ambulanze vengono riferiti a un ospedale che può essere di Emergency (per circa il 50-60%) o ad altri provinciali o regionali. In Panjshir invece siamo riusciti a trasformare questi centri di primo soccorso per trauma in cliniche che siano anche di primo soccorso per la salute primaria (basic health-care). Valuteremo in base a come procederà la situazione se dovremo apportare dei cambiamenti o meno. In più, ci occupiamo di salute primaria a Kabul in 7 cliniche nelle principali prigioni della città e in 2 orfanotrofi. Questo è il servizio che facevamo e che continuiamo tuttora a fare in Afghanistan. 
Circa l’occupazione occidentale negli ultimi vent’anni, quello che abbiamo visto noi sono senz’altro i combattimenti quotidiani a causa della presenza militare, per forza di cose. Abbiamo purtroppo visto nei nostri ospedali e nelle cliniche una quantità di feriti raccapricciante, con una media di 3000 pazienti all’anno ammessi, e migliaia di pazienti trattati ambulatorialmente. Negli ultimi anni, soprattutto le forze internazionali hanno operato moltissimi attacchi aerei, con l’utilizzo per esempio di droni, che hanno aumentato – almeno ai nostri occhi, per quello che vedevamo nelle nostre strutture – il numero di feriti civili vittime di esplosioni di questi attacchi aerei. Senza dubbio l’occupazione occidentale ha portato dei cambiamenti nelle città, mentre in realtà nelle zone rurali e nelle zone più remote non c’è stato tutto questo cambiamento, anzi le cose sono rimaste sempre come erano prima e anche adesso non è cambiato sostanzialmente nulla. Nelle città, per esempio Kabul, c’è stato senz’altro un cambiamento in termini di istruzione, un miglioramento a livello di università, per quello che vediamo noi negli ospedali però abbiamo visto soltanto vittime di guerra.

DF: Come ci avete testimoniato e ci testimoniate non è mai finita. Com’è adesso la situazione, ovviamente anche in riferimento alle diverse aree in cui operate? Come state voi, e come state vivendo la situazione? Come sottolineate anche voi nei vostri documenti, quello che ci arriva è una rappresentazione sempre molto semplificata.

MP: Quello che vediamo noi adesso è di ospedali purtroppo ancora abbastanza pieni, non perché ci sia combattimento attivo – dal ritiro delle truppe non c’è più un combattimento attivo, se non casi sporadici in alcune zone – ma per la ripresa negli ultimi giorni di attentati, come per esempio quello di pochi giorni fa qui a Kabul fuori dalla Moschea di cui sicuramente avrete sentito, così come in altre province. Non è chiaro chi siano gli attori, verosimilmente Daesh o Isis, ma non ci sono delle conferme a riguardo. La situazione non è rosea e rimane un Paese pericoloso da quello che vediamo noi. Kabul è una grande città, violenta, lo è sempre stata e continua a esserlo. Riceviamo feriti da sparatorie piuttosto che da atti criminali, anche se in realtà noi non chiediamo mai cosa sia successo al paziente: il paziente arriva nei nostri centri, se è nei nostri criteri di ammissione viene ammesso e viene curato. Poi da come è la situazione e vedendo che arrivano tanti feriti da Kabul City, verosimilmente possiamo dire che sono molti i casi di criminalità. Purtroppo ci sono ancora tanti feriti a causa di mine, che sono state piazzate in tutto il territorio afgano, sulle strade e nelle zone rurali, da tantissimi, troppi anni, e di feriti a causa di mine se ne vedranno ancora per diversi anni. Purtroppo tanti bambini arrivano nei nostri ospedali – anche a Lashkar-gah ne stiamo ricevendo purtroppo ancora – perché magari giocando trovano qualche strano ordigno, lo prendono in mano e scoppia loro in mano. Questo è qualcosa che abbiamo sempre visto, che continuiamo a vedere, ed è la cosa più drammatica comunque.

DF: Come Naga offriamo assistenza sanitaria, legale e sociale a Milano ai migranti dal 1987. Parlando della situazione odierna, nel nostro centro Naga Har dedicato a richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tortura di cui ti accennavo prima, in questi anni abbiamo incontrato centinaia di persone provenienti dall’Afghanistan, quasi esclusivamente uomini. Un flusso che, anche in maniera discontinua, c’è sempre stato – per smentire la narrazione ufficiale che vede una grande fuga di massa dall’Afghanistan oggi mentre la situazione prima sembrava tranquilla. Ti chiedo se ne avete percezione, e quale sia la condizione degli sfollati e in generale come sia cambiata l’emigrazione dall’Afghanistan negli ultimi venti anni.

MC: Da quello che vi posso dire io, in questi ultimi vent’anni ci sono moltissime persone che hanno cercato di scappare da un Paese in guerra. Ora, ad aggravare la situazione c’è una crisi economica importante. Con il fatto che sono stati bloccati i fondi statali dell’Afghanistan, al momento non si pagano i salari, non si riescono a pagare i fornitori, la situazione economico-sociale è gravissima. I prezzi di tutti i beni, dal cibo al carburante, sono in costante crescita e la situazione non sembra migliorare. Le banche sono chiuse con rarissime eccezioni, come a Kabul e in pochissime grandi città, e ci sono notevoli difficoltà in termini di liquidità per queste banche, quindi anche se aperte le movimentazioni o i prelievi sono minimi.  Anche noi siamo come tutti in difficoltà, adesso facciamo fatica a pagare i fornitori, a pagare i salari. Bene o male stiamo riuscendo piano piano, ma la situazione è davvero difficile. Per settimane, anche più di un mese, tutto il nostro staff in Afghanistan ha lavorato senza riuscire a percepire lo stipendio. Si fa fatica ad importare materiali in Afghanistan, dalle medicine ai macchinari biomedicali, tutti elementi essenziali per l’operatività delle nostre attività in Afghanistan. Non siamo solo noi ovviamente ad avere queste difficoltà, è una cosa serissima che sta mettendo in ginocchio il Paese. Al momento stiamo riuscendo ancora a garantire la nostra operatività ma con notevoli difficoltà. È la gente, la popolazione più vulnerabile, quella che come al solito ne paga le conseguenze più grosse. Le persone inizieranno a patire la fame se la situazione continua così, ci sono già le prime avvisaglie. L’inverno sta per approcciarsi e ci sono migliaia di sfollati a Kabul già ora con poca acqua e cibo, per non parlare di cure sanitarie. Gli sfollati a Kabul, migliaia raccolti nei parchi della città, sono principalmente i nuovi sfollati arrivati da tutte le province da maggio in poi, scappati dalle aree dove c’era una notevole intensificazione dell’attività di conflitto prima del 15 agosto. La crisi economica, tra l’altro, sta facendo aumentare la criminalità in città. La situazione per come è ora non sembra aprire a margini di miglioramento, a meno che la comunità internazionale non decida di sbloccare i fondi o che trovi un modo per far arrivare gli aiuti necessari in Afghanistan.

DF: A proposito delle persone sfollate, abbiamo ovviamente seguito i giorni di agosto, ma come dici sono mesi che arrivavano a Kabul. Quali sono le possibilità, nella vostra conoscenza, di uscire dal Paese, escludendo purtroppo le vie legali?

MP: Come dicevi le vie legali al momento sono pressoché chiuse. Ci sono pochissime ambasciate rimaste in Afghanistan, principalmente quelle dei paesi limitrofi come Russia e Cina. Tutte le altre ambasciate hanno lasciato il Paese, come sappiamo. L’unica è la via illegale, non c’è altro modo, come la maggior parte della povera gente ha fatto in passato. La via illegale è principalmente attraverso il Pakistan, il Tagikistan, l’Iran. Moltissime persone sono ancora da tantissimi anni sfollate internamente (Internally Displaced Persons), nelle zone al confine con l’Iran, ma anche ovviamente con il Pakistan, il Tagikistan. La situazione è drammatica, ma lo era anche prima, semplicemente se ne parlava meno. Per non parlare poi di tutte le persone sfollate che si trovano ancora al confine tra i Paesi limitrofi, Pakistan e Iran principalmente. Molti vengono rimpatriati forzatamente soprattutto dall’Iran. Questo è quello che vediamo qui, considerando che non sono un esperto di migrazione perché ovviamente in Afghanistan facciamo tutt’altro.

DF: Mentre parlavi di ambasciate chiuse mi veniva in mente che le persone afghane che sono in Italia e che vorrebbero fare il ricongiungimento familiare ovviamente hanno grandi difficoltà. Già non era semplice prima, adesso gli ostacoli sono enormi.

MP: Sì, onestamente non so come faranno, anche perché ora non stanno più rilasciando passaporti. Da qualche news recente pare che riapriranno o che abbiano addirittura riaperto gli uffici per il rilascio dei passaporti ma con notevoli difficoltà. Ci sono immagini di migliaia e migliaia di persone che si recano in questo ufficio e ovviamente la cosa non è sostenibile. Non so come faranno a far fronte a queste difficoltà.

DF: Forse uno degli aspetti peggiori è proprio anche l’incertezza. Dal vostro punto di vista avete quasi un osservatorio privilegiato sulla condizione delle donne, uno dei temi più fortemente messi al centro della questione afgana. Cosa osservate nei centri di maternità per esempio?

MP: Parlerei non dal punto di vista di Emergency ma dal punto di vista delle strutture sanitarie. Per fortuna almeno le strutture sanitarie non sono state toccate. Per quanto riguarda noi, ma anche le altre strutture sanitarie appunto, non ci sono stati impedimenti per le donne nel venire a lavorare. Ovviamente il settore della sanità è essenziale e quindi per fortuna non abbiamo avuto problemi in questo senso. Le nostre colleghe afgane sono sempre riuscite a venire a lavorare sia a Kabul che nel sud a Lashkar-gah, che soprattutto in Panjshir. Nella maternità del Panjshir abbiamo visto una diminuzione di pazienti che sono venuti in ospedale soprattutto a settembre, ma per il fatto che il Panjshir ha rappresentato l’ultima provincia in cui c’è stato conflitto attivo: le strade erano chiuse, si faceva fatica a raggiungere la valle. Da moltissimi distretti della provincia del Panjshir la popolazione è scappata totalmente, sono andati tutti a Kabul e quindi c’erano poche persone rimaste. In Panjshir l’ospedale funge un po’ da ospedale regionale perché il sistema sanitario nazionale afgano è al collasso, in crisi per quarant’anni di guerra – non solo di questi ultimi vent’anni, ma ben prima – specialmente adesso ma anche in passato. I nostri ospedali rappresentano dei centri di riferimento regionali, a cui si rifanno tutte le province dell’Afghanistan: le persone fanno giorni di viaggio per venire in ospedale, come per esempio donne incinte che per partorire vanno in Panjshir perché sanno che c’è un ospedale che garantisce cure gratuite e di ottimo livello. Ma anche a Kabul e Lashkar-gah vediamo pazienti da tutte le province che passano anche sei, sette giorni in viaggio con ferite aperte, solo per farvi un esempio. O donne che sono in procinto di partorire e si mettono in viaggio per giorni per raggiungere la valle del Panjshir. Quindi, come vi dicevo, in settembre c’è stata una diminuzione di pazienti in Panjshir appunto perché c’era guerra attiva, soprattutto all’ingresso della valle ed era quasi impossibile raggiungerlo. Abbiamo fatto fatica anche noi e siamo poi riusciti a far passare il nostro staff perché l’accesso all’ospedale è comunque una delle cose su cui ci si batte di più, anche per garantire l’indipendenza e la neutralità delle nostre operazioni. È essenziale che le forze in causa permettano al personale in primis, ma anche ai pazienti, di raggiungere l’ospedale. Vediamo già ora che le persone stanno tornando in ospedale non solo dal Panjshir, ma anche dalle province vicine, si sta tornando alla normalità.

DF: Sul discorso delle donne, avete avuto la percezione che mancasse qualcosa nello scenario dipinto o secondo voi la rappresentazione dei media rispecchia la realtà?

MP: Quello che a me dispiace vedere è che i media italiani non parlano della gravissima crisi economica in atto, e della gente che come vi dicevo inizia a morire di fame. Viene messa in cima la questione delle donne, che è essenziale e ci mancherebbe non parlarne, ma ci sono tantissimi altri problemi su cui non possiamo chiudere gli occhi e se ne sente parlare poco. Mentre nei media internazionali c’è più attenzione sulla situazione socio-economica, in quella italiana manca un po’. Sulle donne ovviamente c’è un grosso problema perché le scuole sono ancora chiuse, a parte le elementari, e bisogna assolutamente vedere come le nuove autorità pensano di aprirsi. Se la situazione rimarrà così ci saranno ancora più famiglie che cercheranno di lasciare il Paese per riuscire a dare un’istruzione alle proprie figlie.

DF: Rispetto a quanto dicevi, mi viene da pensare che già rispetto ad agosto di Afghanistan se ne parla davvero poco. Su come le donne possono soffrire in una situazione di conflitto e di guerra, consiglio a tutti lo speciale “Afghanistan20: il racconto di 20 anni di guerra dalla parte delle vittime” che è stato fatto da alcuni giornalisti con Emergency sulla vostra presenza in Afghanistan. Ho letto lì delle storie che descrivono bene le cose, un po’ nel vostro stile come vi prendete cura ma denunciate anche cosa sia la guerra. Mi aggancio qui per farti un’ultima domanda molto difficile: vi siete fatti un’idea di quale sarà lo scenario in cui lavorerete nei prossimi mesi o vivete alla giornata?

MP: Al momento è veramente difficile a dirsi perché appunto la situazione è in costante divenire. Intanto vediamo nelle prossime settimane che tipo di pazienti riceveremo. Tutti noi speriamo in una diminuzione dei feriti se la situazione dovesse effettivamente migliorare, cosa che purtroppo non credo. Si potrebbe pensare di aprire le nostre attività più sul trauma civile per esempio, e non necessariamente il solo war trauma, le ferite di guerra, ma vedremo, è troppo presto per dirlo. Oggi i pazienti continuano ad arrivare negli ospedali quindi è ancora davvero prematuro. Vedremo anche la situazione di sicurezza come evolverà, iniziano appunto a esserci attentati, come abbiamo già visto in passato, quindi è presto per dire cosa prevediamo, cosa ci aspettiamo dall’oggi al domani. È veramente troppo presto.

DF: Ti ringraziamo davvero tanto Marco per il tempo che ci hai dedicato. 
Salutiamo tutti i nostri spettatori. A presto.

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