Notizie ,

Intervista – Video intervista a Livio Neri

Livio Neri, avvocato, socio di Asgi e socio fondatore di Avvocati per niente

Ascolta l’audio originale dell’intervista.

La richiesta di asilo: un istituto giuridico in grave affanno

Emilia Bitossi: in questo numero della newsletter dell’Osservatorio del Naga, Fuorivista, vorremmo affrontare il tema dell’accesso alla richiesta di asilo e alle misure di accoglienza a Milano e per farlo parliamo con Livio Neri, avvocato che collabora con il Naga dal 2001 e che si occupa prevalentemente di diritto del lavoro, diritto dell’immigrazione, della cittadinanza e dell’asilo, nonché socio di Asgi e socio fondatore di Avvocati per niente. Vorrei che si presentasse Livio stesso. Buongiorno Livio.

Livio Neri: buongiorno Emilia, ciao a tutte e a tutti, mi hai già presentato. Seguo lo sportello legale del Naga da quando è nato o poco dopo. Per Asgi sono stato per anni il referente locale, faccio parte del consiglio direttivo e sono socio attivo.

EB: vuoi spiegarci cosa è Asgi e cosa sono Avvocati per niente?

LN: certo. Asgi è l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, è nata circa 30 anni fa, riunisce i giuristi che in Italia si occupano di immigrazione e asilo; è stata la prima associazione a riunire i giuristi che si occupano di questa materia rivendicando la necessità di uno studio approfondito, specifico di questa materia come di tutte le altre materie dell’immigrazione. È molto cresciuta negli anni con tanti progetti che potete seguire dai suoi canali e dalle sue pagine. Avvocati per niente invece è un’associazione locale, di Milano che riunisce avvocati che prestano la propria attività in materia di immigrazione, ma non solo, per i soggetti deboli che hanno bisogno di assistenza legale gratuita e qualificata nelle varie questioni che devono affrontare nella loro vita.

EB: grazie Livio. Allora partiamo dal tema caldo di cui volevamo parlare con te. Negli ultimi mesi stiamo assistendo quotidianamente agli ostacoli che devono affrontare le persone che si recano alla questura di Milano per fare la domanda di asilo, la domanda di protezione internazionale. Diciamo che, più o meno da metà ottobre, adesso non ricordo esattamente il giorno esatto, la richiesta di protezione internazionale non si effettua più presso la questura di Milano ma presso il reparto mobile che è in Via Cagni, numero 15, zona Niguarda. Con la presenza di mediatori non quotidiana, a giorni alterni, del tutto imprecisati. Quindi le persone vanno lì tutti i giorni cercando di entrare e se non è il giorno in cui è presente il loro mediatore linguistico non entrano. Non esiste né un sito dedicato, né un cartello, è tutto lasciato al caso. Le persone tornano, tornano, tornano, cinque, sei volte e intano passano le settimane. Spesso abbiamo testimonianze dirette quotidiane. Ci sembra di poter dire che la questura di Milano, questo è uno degli elementi che volevamo mettere in risalto, sta violando sia l’accesso alla procedura d’asilo sia quello alle misure di accoglienza e sta agendo una serie di pratiche arbitrarie. Cosa prevede la norma e quali difformità rilevi con quanto accade a Milano sia in termini di procedura d’asilo sia in termini di accesso all’accoglienza? Questa era la prima domanda, grazie.

LN: grazie a te. Anzitutto possiamo dire che la questura può sicuramente individuare il proprio ufficio sul territorio che raccolga le domande di protezione. La norma che si deve applicare prevede che le domande di protezione internazionale debbano essere rivolte all’ufficio competente della questura, quindi è chiaro che la questura può indicare un ufficio competente per raccoglierla. Potrebbe anche, per ipotesi, decidere che sono tutti i commissariati a raccogliere le domande di protezione. Questo sicuramente semplificherebbe l’accesso alla procedura. Quindi diciamo, di per sé, non è un problema e non è una criticità che la domanda venga raccolta non presso gli uffici della questura nella sua sede, ma presso un ufficio periferico, individuato in modo certo, ovviamente, e con chiare comunicazioni all’utenza. Il problema riguarda l’accessibilità a quegli uffici. Concretamente deve essere possibile accedere e deve essere possibile accedervi in tempi ragionevoli. La questione che si pone, e che è molto critica, è invece quella del tempo necessario per la formalizzazione della domanda di protezione. Questo perché la normativa, il decreto 25 del 2008, prevede due momenti: uno, quello della manifestazione della volontà, e il secondo, quello della formalizzazione della domanda. La manifestazione della volontà significa semplicemente dire: “voglio chiedere asilo, chiedo asilo”, non ci sono formule rituali da spendere. Bisogna semplicemente indicare che si vuole fare questo tipo di domanda, e questa è la manifestazione della volontà. Dopodiché la normativa prevede termini precisi perché questa manifestazione della volontà venga formalizzata, ed è l’articolo 26 del decreto 25, che ho citato, che prevede i termini di tre giorni per la formalizzazione della domanda, che possono essere sei giorni, solamente nell’ipotesi in cui la domanda venga presentata agli uffici di frontiera, o la possibilità di un termine più lungo di dieci giorni nel caso di un elevato numero di domande presentate contestualmente, quindi il caso di persone che in gran numero si presentino presso gli uffici. Questi sono i termini previsti dalla legge.

EB: quindi diciamo che il massimo possono essere dieci giorni.

LN: dieci giorni tra la manifestazione della volontà e la sua formalizzazione, formalizzazione che avviene con il modello C3 del quale dopo parleremo. Questo per quanto riguarda la presentazione della domanda di protezione.

EB: rimanendo sul tema della presentazione, cosa ne pensi del fatto che alcune questure, come quella di Monza, per fare un solo esempio, raccoglie la richiesta di protezione internazionale attraverso le email?.

LN: l’idea è che non si debba impedire l’accesso alla procedura. Possono essere anche diversi i canali, così come per i permessi di soggiorno ci sono le prenotazioni online, non è escluso che si possa ricorrere a un sistema simile di prenotazione online, purché i termini siano rispettati con email. Ma questo non deve escludere nessuno dalla presentazione, ci possono essere moltissime persone che non sono in grado di effettuare operazioni online o via email. Quindi l’importante è che il canale sia alternativo a quello della manifestazione presentata fisicamente. Questo appunto per non escludere nessuno, neanche chi non sia in grado di utilizzare sistemi informatici.

EB: veniamo al tema dell’accoglienza, come funziona l’accesso all’accoglienza e chi ne ha diritto.

LN: ovviamente in estrema sintesi la norma, un altro decreto, il 142 del 2015, all’articolo 14, prevede che il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi ha accesso al sistema di accoglienza, il che significa che i presupposti sono solo questi: l’avere formalizzato la domanda e l’essere privi di mezzi per il proprio autonomo sostentamento. Quindi con la formalizzazione, nei tre o massimo dieci giorni, dalla manifestazione di volontà il richiedente asilo ha diritto all’inserimento nel sistema di accoglienza, se è privo di mezzi, cosa che autodichiara in sede di manifestazione della volontà o meglio di sua formalizzazione. Quindi al momento in cui un richiedente asilo è qualificato come tale, o almeno, dal momento di formalizzazione della domanda, questi ha diritto all’inserimento nell’accoglienza. Quindi il ritardo nella formalizzazione, che è illegittimo, comporta anche il ritardo nell’erogazione dei servizi di accoglienza che è altrettanto illegittimo.

EB: la persona che arriva non sa che ha diritto all’accoglienza, quasi mai lo sa. Dovrebbe essere la persona che lo accoglie all’interno della questura, il poliziotto, che chiede se ha bisogno dell’accoglienza, oppure deve essere lui che, edotto da altri evidentemente, fa richiesta di accoglienza?

LN: qua la norma è chiarissima, all’articolo 3, del decreto 142 che ho citato prima, dice: “l’ufficio di polizia che riceve la domanda provvede a informare il richiedente sulle condizioni di accoglienza, con la consegna all’interessato di un opuscolo che deve essere redatto in tutte le lingue che possono essere conosciute dai richiedenti asilo”. Quindi qua la norma non consente deroghe o dubbi, è l’ufficio di polizia a dover informare sulla possibilità di fare domanda di accoglienza, quindi deve essere consegnato al richiedente, dopo che questo gli è stato spiegato, un modulo da compilare e sottoscrivere con la dichiarazione di impossidenza di mezzi per sostentarsi e di richiesta delle misure di accoglienza.

EB: grazie Livio. Non ci sono dubbi di sorta. Invece passiamo al C3, prima di fare considerazioni più generali sul perché e per come di questa situazione. Questa è una prassi che abbiamo rilevato noi e che, molti operatori di enti gestori che gestiscono i Cas e i Sai, ci raccontano spesso. Cosa succede nella formalizzazione del C3? Succede che, non solo nella formalizzazione della domanda, quindi nella sua compilazione, ma addirittura prima, quando una persona va a fare la richiesta di asilo, c’è una sorta di colloquio preliminare dove un addetto della questura fa delle domande relative al motivo per cui la persona vuole chiedere asilo e perché ha lasciato il proprio paese, chiedendo addirittura, in alcuni casi, di scrivere come minimo un certo numero di parole. E anche di fronte alla reticenza delle persone, che vorrebbero parlare di questo solo davanti alla Commissione territoriale, l’addetto della questura insiste che lo facciano subito. Cosa ne pensi?

LN: il tema di un minimo di tot parole, e magari anche senza errori di ortografia, ovviamente non è previsto. A volte le norme hanno il pregio della chiarezza e della semplicità, a volte non lo hanno, come è noto. L’altro decreto che avevo citato sulle procedure di asilo, il decreto 25, all’articolo 3, individua le autorità competenti per le varie fasi della procedura di protezione internazionale. Tra le prime autorità che vengono individuate ci sono le Commissioni territoriali e la questura, o meglio, gli uffici di polizia e si dice chiaramente come la competenza della commissione territoriale sia quella di valutare le domande, mentre la competenza dell’ufficio di polizia di frontiera e della questura sia quella della ricezione della domanda. Non c’è nessun altra incombenza facente capo alla questura, se non la ricezione della domanda e la sua trasmissione alla commissione territoriale. Questa è l’unica competenza della questura la quale sicuramente non ne ha nessuna invece sull’esame o su un vaglio iniziale della fondatezza della domanda stessa. L’unica cosa che deve fare appunto nel ricevere la domanda è la sua formalizzazione e nella sua formalizzazione rientra nella compilazione del modello C3, che non è niente altro che la formalizzazione della domanda, quindi i dati anagrafici, le informazioni sul percorso migratorio dell’interessato e facoltativi i motivi di domanda di protezione, motivi che possono essere anche esposti in un secondo momento alla Commissione territoriale. Quindi non è sicuramente illegittimo chiedere che venga compilata una parte di quel modello, che è adottato da parte del Ministero dell’Interno e sul quale non avrei rilievi in termini di legittimità, nella parte dei motivi, ma è libero il richiedente asilo invece di non compilare quella parte e di riservarsi di esporre i motivi della propria domanda in un secondo momento alla Commissione. Di per sé le persone che vanno in questura a fare domanda in qualche modo assistiti, che sia dal Naga o da altri, possono invece essere preparati alla compilazione del modello C3 anche nella parte relativa ai motivi. Questo potrà essere utile per la commissione per preparare l’audizione. È chiaro che il commissario dell’audizione se sa di che tipo di vicenda si tratta si preparerà prima e quindi riuscirà a svolgere l’audizione in modo migliore, più mirato. Sicuramente i nostri assistiti è bene che vadano preparati, allegando qualcosa di già scritto, o compilando le poche righe che ritengono di poter fare nella loro lingua in quella sede. Sicuramente non può essere imposto loro di farlo.

EB: quindi secondo te sarebbe più utile per loro già farlo in sede di C3? Perché noi solitamente li prepariamo per l’audizione in Commissione e invece consigliamo, in sede di formalizzazione della domanda e compilazione del C3, di rimandare una spiegazione approfondita a quando si troveranno davanti alla Commissione.

LN: può essere rimandato, come dicevo, ma può essere utile se si riesce accennarlo subito perché tra i criteri che deve applicare la Commissione alla valutazione della domanda c’è anche quello della coerenza della narrazione del richiedente la protezione, cioè l’esposizione dei fatti in modo coerente nei vari momenti della procedura che sono appunto il C3, l’audizione ed eventualmente poi il ricorso se la domanda viene rigettata. La coerenza tra queste narrazioni deve essere valutata positivamente dalla Commissione o dal tribunale in un secondo momento. Quindi può essere utile dimostrare questa coerenza nelle varie fasi.

EB: grazie Livio, questo è un buono spunto. Verrei a un’ultima domanda e poi volendo a valutazione più generali, politiche. Chi si reca per ritirare il permesso di protezione sussidiaria, per fare un esempio, deve esibire il certificato di residenza che spesso non possiede. Per fare la residenza, non avendo spesso altra possibilità, fa la richiesta della residenza fittizia, che da la possibilità pur non avendo una domiciliazione stabile di essere iscritto all’anagrafe. Purtroppo la residenza fittizia non si può ottenere senza un permesso di soggiorno ed è allo stesso tempo necessaria per ottenere lo stesso permesso. Cioè è un cane che si morde la coda. Diciamo che per avere la protezione sussidiaria devi avere la residenza e per avere la residenza devi avere un permesso di soggiorno, che spesso mentre attendi di ricevere la protezione sussidiaria non hai più. Questo è un problema che stiamo ponendo spesso, ma al quale non abbiamo ancora ottenuto risposta.

LN: anzitutto rispetto alla questione residenza, dimora, domicilio e vari istituti analoghi occorre ricordare come il richiedente la protezione, visto che da questo siamo partiti, ha diritto alla procedura, allo svolgimento di quella procedura, anche senza residenza, questo diamolo per scontato tra di noi. Anche senza la famosa dichiarazione di ospitalità della quale spesso abbiamo parlato, e su questo ci sono varie pronunce di tribunali, anche del Tribunale di Milano, sollecitato da un ricorso di un collega che lavora nello sportello del Naga, che ha dichiarato come il richiedente asilo abbia diritto a presentare la propria domanda senza dover allegare la dichiarazione di ospitalità. Questo in punto di diritto dovrebbe essere ormai chiarito, anche se so che le prassi della questura non sono ancora conformate a quello che è un principio ormai stabilito dai tribunali, e la pubblica amministrazione dovrebbe attenersi alle decisioni dei tribunali. Questo per quanto riguarda la domanda di asilo e la dichiarazione di ospitalità.

Rispetto a quello che dicevi, cioè alla residenza e ai titolari di protezione, invece, bisogna dire che in primo luogo la prima battaglia che dobbiamo tutti combattere è la residenza per tutti. Tutti i cittadini stranieri regolari, che sono regolari anche quando sono in fase di rinnovo del permesso di soggiorno, o quando sono richiedenti asilo, hanno diritto all’iscrizione anagrafica. ne hanno diritto se hanno un domicilio proprio, quindi una dimora abituale presso un proprio domicilio, ma anche quando sono senza fissa dimora. La residenza anagrafica, che si abbia un domicilio, quindi che si abbia la residenza presso un preciso indirizzo, o che non si abbia un domicilio e quindi che la propria dimora abituale sia nel territorio del comune, ma non presso un preciso domicilio, deve essere riconosciuta. La prima questione da porre, non alla questura, ma agli uffici anagrafici, è quella per la registrazione della residenza, detto questo sappiamo benissimo che non ci si riesce e quindi mentre combattiamo questa battaglia c’è quell’altra da affrontare nei confronti della questura. E anche qua la questione indirizzo è semplice, tra i requisiti per il rilascio di questi permessi di soggiorno non c’è quello della residenza. Il decreto che regola la protezione internazionale, il numero 251 del 2007, individua i permessi di soggiorno rilasciati al rifugiato, al titolare di protezione sussidiaria, e non dice da nessuna parte che debba essere necessaria la residenza. Quindi riassumendo, sicuramente tutti i cittadini stranieri regolari hanno diritto alla residenza anagrafica, ovunque vivano, anche se vivono sotto i ponti, purtroppo, e in ogni caso quando anche non riuscissero a ottenerla, hanno diritto al permesso di soggiorno per il quale hanno i requisiti.

EB: grazie Livio, assolutamente chiaro. Questo fa ancora più rabbia. Venendo a un discorso più generale, ci chiedevamo come è possibile continuare a rilevare queste violazioni senza che si possa o si debba trovare uno strumento risolutivo. Da un punto di vista strutturale e istituzionale esiste un organo di controllo, oppure no?

LN: rispetto soprattutto alla questione dei termini, ma anche dell’accessibilità alla procedura, alcuni sistemi di tutela dei cittadini stranieri interessati a queste procedure esistono. Uno è quello della class action nei confronti della pubblica amministrazione, cioè un tipo di azione collettiva prevista nell’ordinamento ormai da più di 10 anni attraverso la quale è possibile rivolgersi alla pubblica amministrazione quando questa non rispetta le procedure stabilite dalla legge. È un sistema di non grande efficacia, con tempi non sempre compatibili con le vite delle persone, però, in passato qualche risultato anche se simbolico lo ha ottenuto. C’è stata una importante azione collettiva di Cgil e altre organizzazioni a livello nazionale sui tempi delle procedure per la cittadinanza. Il Tar per il Lazio l’aveva accolta, aveva disposto che si organizzassero diversamente gli uffici del Ministero dell’Interno, poi poco o nulla si è fatto per adempiere a quella sentenza che per altro è stata riformata dal Consiglio di Stato. Quindi diciamo che lo storico di questo tipo di azioni è abbastanza negativo. Una cosa forse più concreta che si potrebbe fare invece, e non ci abbiamo ancora ragionato abbastanza, è ricorrere a un altro istituto, quello dei poteri sostitutivi. Cioè, la legge sul procedimento amministrativo prevede che, se la pubblica amministrazione non rispetta i termini previsti per la conclusione dei procedimenti amministrativi, l’interessato possa rivolgersi a un’autorità superiore, individuata dalla stessa pubblica amministrazione alla quale ci si è rivolti, e che, nel termine dimezzato, deve provvedere  alla conclusione del procedimento avviato.

EB: puoi spiegarci in concreto?

LN: veniamo ai nostri termini. Prima abbiamo parlato di tre o dieci giorni. Se questo termine per la formalizzazione della domanda non viene rispettato si può ricorrere, con questi poteri sostitutivi, a un’autorità che è un ispettorato indicato dal Ministero dell’Interno, ispettorato che deve provvedere nel termine dimezzato, quindi, in questo caso, di cinque giorni. In caso di mancato rispetto anche di questo termine poi si potrà ricorrere al Tar. Posso anche escludere che questo strumento sia mai stato utilizzato per questa procedura, forse potremmo provarci, anzi, la lancio come possibile iniziativa allo Sportello Legale del Naga, provare qualche azione pilota e per far rispettare quei termini che sono ordinatori. Evitiamo di fare confusione, i termini di legge si dividono tra perentori e ordinatori, quelli ordinatori sono quelli che indicano semplicemente un termine entro il quale si dovrebbe svolgere una determinata attività. Però anche i termini ordinatori hanno una funzione che è quella di stabilire quando la pubblica amministrazione deve emettere un provvedimento che, in questo caso, è consentire la formalizzazione della domanda, e quindi si potrebbe provare a farli rispettare con lo strumento che dicevo.

EB: questo mi sembra un buon punto di arrivo della nostra intervista. Se riuscissimo a mettere in atto, al di là delle lettere di diffida che noi facciamo insieme a voi spesso e volentieri, qualche cosa di un po’ più stringente, penso che sarebbe un’ottima cosa, anche perché queste azioni sono ripetute nel tempo e non si riesce a uscirne. Altre considerazioni politiche non so neanche se farle. Mi sembra che dietro tutto ciò ci sia una strategia di dispersione e scoraggiamento della richiesta di asilo. Questo forse parlarne mi sembra quasi inutile. Ci si chiedeva anche quanto gli accordi bilaterali tra Italia e Tunisia, o Italia e Egitto, o con il Niger, possano essere fattori che poi scatenano il fatto che, per esempio, i cittadini tunisini ed egiziani sono fra i primi la cui richiesta non viene accolta. Anche nel momento in cui la persona va lì fisicamente per fare la richiesta di solito viene mandata via, rischia l’espulsione o l’invio in un CPR, proprio nel momento in cui fa la richiesta di asilo.

LN: sulla finalità dispersiva sono sicuramente d’accordo, questo è nei fatti. L’idea è quella di rendere difficile l’accesso, disperdere le persone sul territorio e non consentire loro di accedere al sistema di accoglienza che ha ovviamente dei costi pubblici. Rispetto ai rigetti per nazionalità e alla non possibilità per i cittadini provenienti da alcuni paesi di seguire la procedura non so se è quella la finalità, sicuramente ha inciso molto l’inclusione della Tunisia nell’elenco dei paesi d’origine considerati sicuri. In realtà poi l’essere la Tunisia inclusa in quell’elenco, noi sappiamo che ovviamente non significa che le domande di chi proviene da quel paese non debbano essere esaminate o debbano essere rigettate automaticamente. L’abbiamo contestato in diverse sedi e abbiamo un ricorso al Consiglio di Stato pendente. Tutto ciò significa solamente che le procedure sono diverse per chi proviene da quel paese, gli effetti della decisione sono in parte diversi e la procedura si svolge in parte in modo diverso, ma non che i tunisini non possano presentare domanda di protezione o che questa debba essere rigettata automaticamente. Tuttavia, l’inclusione in quell’elenco ha sicuramente causato nella prassi della pubblica amministrazione uno sfavore, un pregiudizio nei confronti di quelle particolari domande.

EB: Livio, ti ringrazio moltissimo. Possiamo chiudere qui e speriamo di essere stati utili.

LN: grazie a te e a tutti.

Sostieni il Naga, adesso.

Il tuo sostegno, la nostra indipendenza.