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Intervista – Video intervista a Cristina Molfetta

Cristina Molfetta, curatrice del dossier annuale di Fondazione Migrantes sul Diritto di asilo

Le guerre sono tutte uguali

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Davide Fracasso: Buongiorno a tutti. Sono Davide del Naga. Continuiamo con le nostre interviste all’interno del nostro spazio della newsletter Fuorivista. Oggi abbiamo come graditissima ospite Cristina Molfetta che saluto e ringrazio.

Cristina Molfetta: Grazie a voi delle possibilità. Buongiorno.

DF: Cristina, ti lascerei presentare direttamente. Dico solo che ti conosciamo anche tra le curatrici del dossier annuale di Fondazione Migrantes sul Diritto di asilo. Vuoi raccontarci come costruite questo lavoro e quali sono i cambiamenti più significativi che hai analizzato?

CM: Grazie. Come accennavi, ci permette di analizzare la mobilità in generale rispetto a questo Paese. Guardiamo sia agli italiani che continuano a spostarsi all’estero, sia avendo una storia di quelle che sono le comunità migranti che ormai si sono radicate. Personalmente curo nello specifico lo strumento che si occupa di Diritto di asilo e di Protezione Internazionale. Lo facciamo già da dieci/quindici anni: questo ci dà la possibilità di avere un’idea di come in qualche modo il fenomeno del Diritto di asilo e della Protezione internazionale sia cambiato in Europa e in Italia. Possiamo dire che non ha mai avuto vita facile. In realtà, sia in Europa che in Italia, sempre di più sono evidenti tutta una serie di pratiche: dalla esternalizzazione, ai respingimenti alla frontiera, alla lentezza nell’attribuzione di un porto di sbarco, a tutta una serie di pratiche burocratiche che rendono difficile il percorso di richiesta d’asilo anche una volta in Italia. Questo è stato così fino all’altro ieri, con lo scoppio della guerra ucraina. 
L’altro fenomeno che abbiamo osservato è come già con la crisi afghana che c’era stata ad agosto, e adesso appunto con la crisi ucraina, si è introdotto un altro elemento, una sorta di etnicizzazione: del diritto di asilo, dei posti di accoglienza – che esploreremo un po di più alla fine di quest’anno e che ci preoccupa in maniera particolare. Quindi, apparentemente, il nostro Paese e in generale l’Europa, in realtà negli ultimi mesi stanno dimostrando una parte molto solidale nei confronti degli ucraini. Mentre dimostriamo questa parte solidale nei confronti degli ucraini, per cui appunto è stata approvata per la prima volta la Protezione Temporanea europea, per cui si sono praticamente azzerati i tempi di attesa rispetto a quelli che sono i servizi, si dimostra che si riescono a fare delle cose che prima sembravano fantascienza. C’è la possibilità di avere borse di studio per inserire immediatamente ricercatori in università per fare un esempio. Con l’altra mano però continuiamo a fare quello che facevamo fino all’altro ieri: continuiamo a respingere le persone in Libia, a giorni discuteremo il rifinanziamento della missione che garantirà appunto il supporto alla Guardia costiera libica. E come sempre ci verrà detto che non è il momento di metterlo in discussione per tutta una serie di motivi. Vediamo come da una parte i Paesi con una mano stanno dimostrando una cosa rispetto agli ucraini, e con l’altra continuano a dimostrare tutte altre politiche che sono ben lungi dall’essere di accoglienza rispetto alle altre nazionalità. Tengo a sottolineare che, ad esempio, un gran numero di afghani, diciamo quasi 3.000 persone, che avevano esattamente le stesse caratteristiche di quelle che abbiamo spostato con i voli umanitari ad agosto, continuano a essere bloccati in Pakistan e in Iran senza possibilità di arrivare. Riceviamo risposte dal Ministero degli Esteri e degli Interni del tipo “Non abbiamo i fondi per pagare i voli aerei”. È giustissimo garantire le cose che garantiamo agli ucraini, ma sarebbe ancora più giusto che fossimo in grado di garantire le stesse cose a tutti gli altri che scappano anche essi da guerre e da conflitti.

DF: Grazie intanto per questa super introduzione, in cui hai già toccato moltissimi temi sui quali volevamo chiederti un parere. Proprio sul discorso dell’Ucraina parliamo di un arrivo di più di 100.000 persone. Ovviamente abbiamo notato la differenza. Anche questo flusso ha comunque già travolto un sistema di accoglienza molto fragile. Come dicevi, chi ne fa le spese sono i richiedenti asilo incastrati qui in Italia. Secondo te è un problema di sistema che è andato in tilt? Cosa esattamente è peggiorato rispetto alle condizioni dei richiedenti asilo che arrivano come dicevi tu anche da altri Paesi? È un tema di sistema o di volontà?

CM: Secondo me ci sono tutte e due le cose. In parte abbiamo un sistema che non è un sistema, ma è un dis-sistema come dico da anni. Cioè in realtà quello che dovrebbe essere il sistema è molto fragile, ha occupato sempre più o meno il 30% dei posti. Abbiamo sempre avuto la maggioranza dell’accoglienza concentrata in centri di accoglienza straordinaria. È come se noi, pur arrivando da due anni di pandemia in cui avevamo dei numeri di accoglienza molto bassi, avremmo potuto utilizzare questo tempo per rafforzare il sistema ordinario, andando a chiusura di tutte le accoglienze straordinarie e portando il sistema alla sua ordinarietà, quindi più capace di fronteggiare altre sfide. In realtà, in questi due anni in cui siamo passati dall’avere 140.000 accoglienze ad averne 70.000, non abbiamo fatto nessuna di queste operazioni di chiusura dei CAS e di rafforzamento del SAI. Quindi siamo arrivati in questa emergenza ucraina. E già avevamo, come sempre abbiamo avuto nella nostra storia, il 30% di persone accolte nel sistema ordinario, il 70% in quello straordinario. 
In più, tutti gli atti che abbiamo fatto, per quanto per gli ucraini siano stati molto più celeri, i primi posti che abbiamo messo a disposizione per gli ucraini in realtà erano i posti che avevamo creato – tra virgolette – per i famosi 5.000 afghani che abbiamo individuato ad agosto, ma che non avevamo ancora attivato. Dei 5000 afghani che sono arrivati, in realtà quasi nessuno è entrato nel sistema d’accoglienza ordinario, ma sono tutti finiti in centri straordinari. Quindi quei 2.000/3.000 posti che c’erano nel sistema ordinario, quei primi posti messi a disposizione erano pronti perché in realtà non li avevamo utilizzati. Un sistema che nell’arco di sei mesi, come dire, non riesce a utilizzare la risorsa che mette a disposizione per le persone per cui l’ha creata è un problema – al di là del fatto che mettere a disposizione dei posti per afghani e per ucraini dal mio punto di vista è già un problema notevole perché introduce il problema della etnicizzazione. Però la dice lunga su quanto siamo lenti rispetto a una crisi, che poi è stata anche molto celere – gli ucraini sono arrivati velocissimamente – infatti, il nostro tipo di risposta è stato invece molto lento. Abbiamo, tra virgolette, pochi problemi rispetto a quelli che dovremmo avere, perché in realtà in Italia abbiamo la più grande comunità ucraina d’Europa, circa 250.000 persone. È stata proprio la comunità ucraina che ha dato la stragrande maggioranza dei posti di accoglienza agli ucraini. Perché pure gli ucraini, per cui apparentemente abbiamo steso un tappeto rosso, se li avessimo dovuti accogliere noi starebbero in mezzo alla strada. Dei 110.000 che sono arrivati in Italia, circa 90.000 sono all’interno della comunità ucraina e noi già ci sentiamo in difficoltà per aver garantito posti alla restante parte. Abbiamo stabilito che è una cosa positiva che le persone che avevano trovato dei posti di accoglienza, che si erano attivate da sole, potessero ricevere delle risorse, anche se per la durata di solo tre mesi. Il portale della Protezione Civile creato per questo tipo di richiesta era attivo da dieci giorni. Questo la dice lunga, anche qui, sul fatto che le persone hanno comunque trovato una sistemazione in questo periodo ma non hanno ancora effettivamente ricevuto i soldi dallo Stato. 
Dopo di che, abbiamo rimesso in atto un elemento che rappresenta un elemento dal mio punto di vista positivo – vediamo come evolverà. Cioè, abbiamo riaperto la possibilità di avere un’accoglienza decentrata all’interno del Paese in questo bando. L’aspetto negativo è che abbiamo dovuto ricorrere alla Protezione Civile, come se il sistema ordinario non fosse stato in grado da solo di fare un bando che si auto allargasse. Però con questo bando abbiamo ottenuto disponibilità per 27.000 posti, poi in realtà ne sono stati scelti 17.000. Nell’arco di un mese abbiamo avuto una disponibilità su tutto il territorio di 17.000 posti, che quasi corrisponde al sistema che abbiamo costruito in vent’anni e che dimostra una delle cose che diciamo da tempo come Fondazione Migrantes e come Europa Asilo: se il sistema volesse, sarebbe in grado di avere dei numeri più significativi di accoglienza decentrata sul territorio. E quindi, per rispondere alla tua domanda, da una parte c’è chiaramente una non volontà nell’aver perseguito quella strada negli anni. Dall’altra c’è una lentezza burocratica che ci rende sempre inadeguati rispetto al dare una risposta a fenomeni che richiedono probabilmente un’attivazione molto più celere di quello che la nostra burocrazia come Paese è in grado di fare.

DF: A proposito di accoglienza decentrata, abbiamo visto, anche sull’onda di uno slancio emotivo, un’accoglienza delle persone che arrivano dall’Ucraina che ha attivato famiglie e privati cittadini. Una grande disponibilità. Vorrei chiedere a te, ovviamente già lo slancio emotivo spiega parte della differenza, perché però non c’è stata prima questa attivazione? E quanto gioca la linea del colore e la vicinanza geografica rispetto a questa accoglienza diffusa che prima non c’era o, se c’era, non era sicuramente con questi numeri?

CM: Gli elementi che hai detto sicuramente giocano, e in parte ci ritorno dopo. Però sicuramente gioca moltissimo anche il tipo di informazione. Cioè, io non ricordo da anni, forse la guerra dell’ex Jugoslavia, ma dobbiamo tornare indietro di trent’anni, ha avuto una copertura simile, probabilmente inferiore rispetto a quella che sta avendo l’Ucraina. E già avevamo avuto un assaggio di questa cosa, perché anche per l’Afghanistan, che è anche un Paese che assolutamente non è nella mente dell’italiano medio, nel momento in cui ad agosto c’è stata l’operazione di evacuazione ne hanno parlato tutti i telegiornali. La risposta emotiva del Paese e della popolazione sarebbe stata di accoglienza. Poi ne abbiamo smesso di parlare: non è che stiamo raccontando agli italiani che abbiamo abbandonato 3.000 persone in Iran, in Pakistan, che avevano gli stessi diritti degli altri. Personalmente credo che se lo raccontassero ai telegiornali tutte le sere, probabilmente avremmo una risposta emotiva di disponibilità all’accoglienza anche rispetto a loro. E non abbiamo nessuna copertura mediatica rispetto a tutte le altre guerre che vanno avanti in contemporanea, in Africa, in Medio Oriente. I telegiornali non ci parlano mai delle altre guerre. Allora da una parte c’è un’informazione molto pressante su questa che fa scattare anche un’adesione emotiva. Dall’altro anche l’Afghanistan, che è l’unico altro episodio recente in cui abbiamo fatto questa cosa, se vogliamo seguire un po’ il filone, anche gli afghani a loro volta sono più immediati di altri richiedenti asilo. E avevamo anche delle responsabilità in quel Paese per esserci rimasti per quasi vent’anni. Indubbiamente, il fatto che ci sia questo tipo di copertura, che gli ucraini siano europei molto simili a noi, che li hanno ripresi un sacco di volte con cani, gatti, bambini, che chi arriva qui per la stragrande maggioranza sono donne e bambini. Se fossero arrivati tutti i soldati ucraini forse la disponibilità ad accoglierli in casa sarebbe un filo più bassa. Quindi c’è tutta una serie di fattori che ha fatto sì, e che fa sì, che ci sia una disponibilità nei confronti degli ucraini che non abbiamo visto. Certo, sono anche bianchi, europei molto simili a noi e non ultimo anche con una religione simile alla nostra, cioè fondamentalmente cristiana. Sono cattolici ortodossi ma poco fa la differenza, quindi comunque con delle caratteristiche per cui è più facile che scatti una similitudine e anche una forma di immedesimazione in quello che succede.

DF: Effettivamente da una parte c’è stata questa informazione anche emotiva. Siamo in guerra in Europa, quindi è anche normale, però dall’altro abbiamo subito sentito la retorica del vero rifugiato che scappa dalla guerra. Ovviamente una parte politica in particolare, ma poi in generale. Rispetto a questa retorica, che sicuramente attecchisce alla grande perché dà delle spiegazioni molto semplici, ti è capitato già di riscontrare delle discriminazioni anche nei servizi dedicati all’asilo? Tra chi arriva ed è sempre stato accusato di arrivare per motivazioni diciamo futili, per dire una parola educata, e dall’altro il vero rifugiato che scappa dalla guerra. Un esempio potremmo vederlo subito alla frontiera, molto vicino all’Ucraina, alle frontiere polacche e bielorusse, il caso delle persone che non vengono fatte passare. Ecco, volevo sapere da te se avessi già riscontrato delle differenze e sapere cosa ne pensi.

CM: Le differenze sono moltissime. Io credo che le persone che parlano di vere guerre e non vere guerre forse non sono mai state in zone di conflitto. Lo dico perché prima di tornare in Italia e fare quello che vi ho spiegato, ho passato 15 anni dentro i campi profughi nelle zone di conflitto. Allora inviterei chiunque, come dire, avrei invitato chiunque ad andare in Afghanistan in determinati anni, ad andare in Siria in determinati anni, ad essere presente in Darfur, essere presente in alcune zone del Centro America e a dichiarare che lì non c’era un reale conflitto in quel momento. E purtroppo credo che la guerra è guerra ed è molto simile da tutte le parti, e scatena una serie di persone in fuga. Cambia la nostra capacità di comprenderlo ma in realtà le similitudini sarebbero molto elevate, diciamo così. Dopodiché, certo, è sempre facile sostenere queste vere, queste false da lontano, quando non ti tocca, quando non sei sotto le bombe, quando non sei tu che devi scappare, quando non conosci nessuno di quel Paese che sta scappando per quella serie di motivi. E forse si riesce anche a dire una frase così, che veramente perde di qualunque senso e significato nel momento in cui tu ti trovi vicino a quella zona e a quel tipo di tensione, di paura che senti e tocchi con mano. Le discriminazioni, come un po’ ho provato a dire prima, sono all’ordine del giorno. Per esempio, per i bambini ucraini è stata mandata una circolare a tutte le scuole elementari, medie e superiori. In realtà la nostra normativa, le nostre leggi, dicono che tutti i bambini – anche qui, non solo dei richiedenti asilo, ma qualunque bambino arrivi in Italia, anche se i genitori non hanno i documenti – avrebbe diritto sulla carta a entrare in una scuola italiana ed essere iscritto nel suo ordine e grado indipendentemente se l’anno scolastico sia iniziato o la scuola sia in sovrannumero. Tutti noi, che ci occupiamo di richiedenti asilo e rifugiati, sappiamo che inserire un bambino a scuola se non lo si fa a settembre ti rispondono che la classe è già piena, l’anno scolastico già iniziato e magari ci vorranno 3 o 4 mesi per riuscire a inserire il bambino nella classe. Sicuramente ai bambini ucraini questo non è successo, sono arrivati e sono stati inseriti immediatamente. Chiunque segue richiedenti asilo e rifugiati sa che quando il bambino viene inserito a scuola, l’altra cosa che può essere succeda e che venga detta è “Non abbiamo i fondi per attivare la mediazione linguistica, non abbiamo i fondi per attivare i corsi di italiano per velocizzare il processo di apprendimento della lingua”. Bene, per i bambini ucraini questi fondi sono stati messi a disposizione, per cui hanno i fondi per la mediazione linguistica, hanno i fondi per l’apprendimento della lingua italiana. Ad esempio, quando sono stata a Trieste la maestra di una classe mi diceva che quella settimana era arrivato un bambino ucraino. Era stato inserito però, dopo sei mesi di attesa, anche un bambino del Congo. E per il bambino ucraino la mediazione linguistica c’era e per il bambino del Congo la mediazione linguistica non c’era. Questo chiaramente è orribile perché l’insegnante, oltre a essere un insegnante che aveva interiorizzato che i bambini dovrebbero essere tutti uguali, era anche una tutrice di minori stranieri non accompagnati. I bambini sono tutti uguali di fronte alla legge, però creare dei servizi per una categoria e un’etnia fa sì che poi questa uguaglianza della legge si perda come nell’esempio della stessa classe ma due situazioni diverse per i due bambini. Uno non aveva aspettato neanche un giorno e aveva i compagni con la bandierina che gli dicevano benvenuto, che è bello, che dovrebbe essere fatto per ogni bambino che entra nella classe. L’altro aveva atteso sei mesi che una scuola gli dicesse “Va bene, puoi iniziare ad andare a scuola”. Quindi questa cosa moltiplicata per le università, gli ospedali e i posti di lavoro e via dicendo, è ovvio che è come se gli ucraini avessero in questo momento un canale privilegiato, per cui in qualche modo si fa il possibile perché i loro tempi di attesa siano molto bassi mentre le altre persone devono aspettare del tempo. Vi faccio un altro esempio: come Fondazione Migrantes appunto, curiamo questa relazione tutti gli anni. Dall’anno scorso, nella redazione con noi c’è UNIRE, l’Unione Nazionale Italiana Rifugiati, è la prima organizzazione dei rifugiati che sono in Italia da anni, che si sono costituiti in questa organizzazione, che sono presenti al Consiglio Europeo e possono dare un parere rispetto alle leggi – il Parlamento italiano non gli ha mai chiesto un parere, ma questo non dovrebbe sorprenderci, siamo abituati a legiferare su qualcuno senza chiedergli mai niente. E appunto, loro fanno parte della redazione e ci hanno detto che una delle cose di cui vorrebbero scrivere è che loro sentono molto forte di essere stati richiedenti asilo e rifugiati di serie B, perchè veramente hanno in mente i tempi che hanno dovuto aspettare e le attese e adesso sono stati carini e lo mettevano come interrogativo e dicevano esistono rifugiati di serie A e di serie B? La risposta dovrebbe essere sì, perché rispetto a quello che stiamo facendo evidentemente ci sono delle persone che si meritano delle cose e altre che se ne meritano altre. E io però ritorno al punto di prima: la guerra è uguale per tutti, dove c’è la guerra vuol dire che ci sono delle persone che vengono uccise da qualcun altro, che ci sono delle famiglie che devono scappare, ci sono dei bambini che perdono dei genitori e le conseguenze sono perfettamente identiche in qualunque contesto e luogo del mondo avvengano. La Convenzione di Ginevra che noi abbiamo firmato è una convenzione che dovrebbe proteggere e offrire pari opportunità a tutti quelli che scappano da questo tipo di contesto. Appunto, non in base a quanto sono vicini o lontani a noi, culturalmente. Quindi c’è qualcosa che non torna.

DF: Infatti, diciamolo, è un po’ strano. Immagino che condividi con noi la sensazione. Da una parte ci si stupisce magari poi di quello che è stato dimostrato in fatto di accoglienza, ma questo non può che lasciare anche un amaro in bocca per quanto dicevi, proprio per la netta sensazione che poi ci siano rifugiati di serie A e rifugiati di serie B. 
Andiamo verso la conclusione, vorrei farti un’ultima domanda. Siamo in una situazione un po’ inedita per l’Europa, come dicevi anche tu, da trent’anni non avevamo una guerra in Europa o comunque alle sue porte. A noi non sembra proprio che questo evento abbia modificato o abbia avviato una nuova fase di elaborazione delle politiche migratorie. Volevamo sapere se è anche la tua impressione.

CM: Sì, oserei dire che per adesso siamo molto schiacciati, come quasi sempre facciamo in questo Paese, sull’emergenza. Quindi sembra che siccome c’è la guerra, come dire, basta mettere sul piatto alcune cose per tamponare la situazione attuale. E in realtà, così come non siamo stati in grado in vent’anni di costruire qualcosa che sia realmente un sistema, sembra che tuttora stentiamo a capire che non solo siamo un Paese, come tutti i Paesi europei, immerso nella contemporaneità, un Paese di emigrazione, immigrazione, transito. Dovremmo avere degli strumenti, non tanto per tamponare le cose che succedono e che continueranno a succedere, che si susseguiranno, ma per dotarci di strumenti di gestione di un fenomeno, di una mobilità che, un po’ come dicevo all’inizio, sono complessi e vedono coinvolti anche noi in prima persona. E quindi dovremmo intanto riuscire a capire che siamo un Paese multiculturale, multireligioso e con delle comunità straniere ormai fortemente radicate con tantissimi giovani. È una vergogna che non abbiamo una legge sulla cittadinanza, una legge che dovrebbe favorire canali di ingresso legali rispetto alle figure professionali di cui il Paese ha bisogno. Non riusciamo a dotarci di tutta una serie di strumenti di gestione di questo fenomeno che in realtà è la gestione del fenomeno della contemporaneità. Però sembra che noi continuiamo a essere radicati a quest’idea di un paese monolitico, dove chi arriva è sempre un po’ un corpo estraneo. E così non faremo dei grandi passi avanti. E sembra sempre che ci sia qualcosa di più importante da fare prima di rendersi conto che siamo appunto nel 2022 e queste sono le sfide con cui ci dovremmo confrontare oltre a quelle ambientali. E invece stiamo sempre a pensare a delle pezze da mettere rispetto a delle cose che addirittura sembrano di gestione del secolo scorso.

DF: Ringraziamo molto Cristina Molfetta di Fondazione Migrantes per l’intervista, per il tempo e anche per il lavoro che svolgi. Con tutti ci vediamo alla prossima intervista di Fuori Vista. Ciao Cristina e grazie ancora.

CM: Grazie a voi per l’attenzione e per il lavoro che fate.



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