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Intervista – Enrico Gargiulo

Enrico Gargiulo,
sociologo, professore all’Università di Bologna e attivista del diritto all’abitare

La residenza. Strumento di selezione e di controllo

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Marta Pepe: buonasera a tutti e a tutte, sono Marta del gruppo Osservatorio del Naga e siamo qui per una nuova intervista per la nostra newsletter Fuorivista. Questa sera intervistiamo Enrico Gargiulo, sociologo, professore che insegna all’Università di Bologna, e attivista che si occupa del diritto all’abitare. Con lui affronteremo proprio questo tema e l’accesso alla residenza.
Enrico, che l’esclusione dalla residenza, dal poter chiedere la residenza, abbia delle conseguenze sulla persona è evidente. Ne abbiamo esperienze dirette: è evidente rispetto alle ricadute che ha sull’accesso a un contratto di lavoro, all’apertura di un conto corrente, a una tessera sanitaria, la lista è abbastanza lunga… Cosa riflette effettivamente questa esclusione?

Enrico Gargiulo: grazie innanzitutto al Naga per l’invito, sono molto contento di partecipare a questa iniziativa. Vado subito al punto. Riflette prima di tutto una precisa volontà politica, quella di selezionare la popolazione. In che senso? Non tanto di scegliere chi può essere presente sul territorio, considerando che allo stato attuale l’assenza di residenza non qualifica l’assenza di un diritto a stare in un posto – in passato è successo anche questo durante il fascismo, ma non ora. Seleziona però le persone che hanno diritto a esercitare i propri diritti in quel territorio. Sostanzialmente, uno strumento come questo è utilizzato in maniera escludente e serve a selezionare le persone “meritevoli” di poter consumare le risorse pubbliche di quel Comune.
Perché succede questo? Perché sostanzialmente da quando l’anagrafe è stata introdotta, all’indomani dell’Unità d’Italia, per una ragione molto pratica si è deciso di agganciare l’esercizio effettivo dei diritti all’iscrizione anagrafica. È stato introdotto come strumento prevalentemente di monitoraggio statistico e amministrativo del territorio; sapere chi c’è in un posto, sapere chi si muove, come si muove e poter allocare meglio le risorse. Dentro questa logica amministrativa, pratica, si è pensato che la cosa più sensata fosse che una persona i propri diritti li eserciti lì dove è residente, dando per scontato che ci sia una corrispondenza tra la propria residenza di fatto e quella di diritto. Cosa che invece scontata non è. Questa scelta, sicuramente ragionevole da vari punti di vista, ha prodotto un effetto immediato, ovvero che i Comuni hanno percepito una quota della popolazione residente come un fardello. Tant’è che si è sviluppata da subito una doppia tendenza che è molto simile a quella che vediamo oggi, cioè quella di tollerare l’iscrizione anagrafica di persone che sono palesemente altrove e allo stesso tempo quella di non vedere anagraficamente, ossia non registrare, persone che sono presenti, ma sono sgradite. La gamma delle persone oggetto di esclusione è elevatissima, una sorta di lista degli indesiderabili: il “primo premio” lo prendono le popolazioni romanì, sinti, camminanti…il “secondo premio” direi sempre le persone senza dimora…negli ultimi decenni una categoria oggetto di esclusione come tale, a prescindere da altre caratteristiche, sono le persone non italiane. In alcuni casi ci si accanisce di più contro persone appartenenti a uno Stato Europeo, in particolare la Romania; in altri casi con le persone extraeuropee.  In passato come tutt’ora si segnalano forme di esclusione nei confronti di chi ha precedenti penali o verso le persone semplicemente povere. Questa tendenza è legata al tema di risparmio delle risorse pubbliche: il welfare ha dei costi e quindi, non dando la residenza a determinate persone, risparmio risorse.  L’iscrizione anagrafica è un diritto a esercitare altri diritti nella misura in cui è presente un nesso tra la residenza e diversi benefici e prestazioni.
Bisogna sottolineare una questione centrale per comprendere quale sia la mentalità diffusa a livello politico e burocratico. In alcuni casi il nesso residenza – diritti è scritto nero su bianco in una legge: la Legge 328 del 2000, ad esempio, riordina le politiche sociali e determina proprio che l’accesso all’assistenza sociale debba avvenire nel territorio in cui si è residenti. La sanità è già più sfumata, perché la Legge del 1978, che è stata fatta quando l’Italia era ancora un Paese di emigrazione, anche se il saldo si era già invertito, diceva che ci si iscrive al Servizio Sanitario in un distretto sanitario dove si è residenti; non era stata quindi pensata rispetto alle persone migranti. Quando la Turco Napolitano, legge sull’immigrazione, aggiorna il diritto alla sanità per le persone straniere, dice invece che in assenza di residenza ci si iscrive dove si ha la dimora effettiva, anzi il domicilio effettivo, ossia l’indirizzo indicato sul permesso di soggiorno. Quindi in teoria sgancia non solo le cure essenziali, ma la piena iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale dalla residenza. Eppure, di fatto, moltissimi distretti sanitari interpretano in senso restrittivo questa norma, trattando gli stranieri alla stregua degli italiani per i quali l’iscrizione è dove sta la residenza anagrafica: se non hai la residenza anagrafica non ti iscrivi. Però un italiano, nato in Italia, tendenzialmente possiede una residenza, magari non si iscrive dove vive, ma mantiene il medico di base nella città in cui è nato.

MP: un italiano, in un modo o nell’altro un escamotage lo può trovare, se la può cavare.

EG: una persona straniera che non ha avuto un’iscrizione anagrafica rimane senza il medico di base. Ma, anche quando non c’è una previsione esplicita nella legge, si tende a considerare questo nesso scritto nella pietra, vincolante.

MP: ci sembra di poter dire che l’anagrafe in sé sia un vero e proprio centro di potere inscalfibile, anche dal susseguirsi di giunte diverse, anche di colore diverso; quindi, anche a prescindere dalle posizioni politiche, l’atteggiamento dell’anagrafe è proprio di chiusura. A che pro tutto ciò? E chi è che governa questa macchina, questo grosso centro di potere?

EG: domanda interessantissima che tocca una serie di nodi centrali. Studiando l’anagrafe ci si rende conto prima di tutto di una cosa macroscopica, ovvero che lo Stato non è un ente monolitico ma è un attore composto da organismi che possono avere interessi anche molto diversi tra loro e contrastanti. L’anagrafe è campo di conflitti non soltanto tra burocrazia, politica e persone escluse dalla residenza, ma anche e soprattutto tra i diversi attori istituzionali. Esprime vari tipi di potere in realtà perché ha due funzioni primarie, una prevista e una non prevista, ma di fatto diventata centrale. L’anagrafe svolge la funzione formale di controllo statistico, amministrativo del territorio; alle volte, questo controllo può assumere sfumature se vogliamo “poliziali”, quando controllare assume il connotato di sorvegliare e di consentire l’esercizio effettivo dei diritti. Si tratta di due funzioni talmente importanti per lo Stato centrale, che l’anagrafe è una materia completamente centralizzata…i Comuni, gli enti locali e anche le Regioni non hanno alcun potere in materia anagrafica. La catena di comando è molto netta: il Ministero dell’Interno delega l’esecuzione della macchina anagrafica ai comuni, utilizzando le Prefetture come anello di trasmissione, come controllore. Il Sindaco o la Sindaca in materia anagrafica agisce in termini di “ufficiale di governo”, quindi agisce come un semplice burocrate che è chiamato a eseguire le regole del gioco. I Comuni rimangono un attore importante, perché hanno fatto fin da subito quello che volevano: dal momento che dal numero di residenti si determina l’esistenza stessa di un comune (stipendi dei dipendenti, numero di consiglieri, membri della Giunta, numero di farmacie, etc. una serie di cose che sono strategiche) molti piccoli Comuni si tengono cittadini ricchi improbabili con seconde e terze case che hanno la residenza lì per vantaggi magari fiscali, ma che chiaramente non vivono lì. Allo stesso tempo, come dicevo prima, per risparmiare soldi tengono fuori i poveri o le persone indesiderabili, nell’Ottocento come oggi. I Comuni sono quindi un attore che tendenzialmente viola in maniera sistematica la normativa anagrafica, quando addirittura non la crea, con ordinanze improbabili in cui riscrive le regole del gioco. A controbilanciare interviene il Ministero degli Interni con il suo staff tecnico che ha prodotto negli anni Circolari che andavano a redarguire i Comuni; alcune delle quali molto famose, come quella del ’95 cui si dice che la residenza è riconosciuta anche a chi vive in baracche, in grotte e roulotte. Il ministero è un attore indipendente che alle volte risponde a interessi politici, magari della minoranza, altre volte è autonomo. Se un Governo modifica la normativa anagrafica come ha fatto Maroni nel 2009, o il Piano Casa nel 2014, il Ministero può intervenire con delle Circolari che vanno a smussare quell’intervento. Le Prefetture sono un altro attore coinvolto… quasi mai gli attori sono congruenti, spesso si creano conflitti interistituzionali. La posta in gioco è simbolica, ovvero l’esercizio del potere come tale, o, soprattutto, è di tipo materiale, ovvero concerne l’utilizzo delle risorse. È un potere complesso e articolato, contradditorio, che ha dimensione materiale molto forte. L’Istat è un altro attore interessato, dalla Legge è chiamato a definire le regole pratico-operative della tenuta dei registri anagrafici, e a monitorare affinché i Comuni non vadano troppo per conto loro. Negli ultimi anni, dal 2009 in poi, sono stati effettuati dei cambiamenti alla normativa anagrafica, decisi quindi dallo Stato centrale, che abilitano la logica selettiva: viene ad esempio inasprita la procedura di iscrizione per le persone senza dimora; il “Piano Casa, Decreto Lupi” che dice che non tutti hanno diritto alla residenza, chi occupa abusivamente non lo ha.

MP: prima di affrontare l’argomento Decreto Lupi, una domanda. Dicevi che la legge in generale prevede che la residenza non sia qualcosa che si chiede, ma che si dichiara; quindi, non è una concessione ma è un diritto. Abbiamo capito bene come si è arrivati a questo punto, attraverso il percorso legislativo, ma mi crea stupore che questo ribaltamento abbia impattato anche il comune sentire. La cosa che mi sorprende è che un comune cittadino vive oggi il concetto di residenza come qualcosa che va guadagnato, che bisogna meritarsi. Come la spieghi questa cosa?

EG: questo è un altro punto molto interessante. Si è affermata una logica selettiva e incentrata sulla meritevolezza; uno strumento pensato per fotografare in maniera dinamica la popolazione, ovvero per rilevare la presenza e i movimenti, senza intaccare gli stili di vita delle persone, lentamente è diventato, prima di fatto e poi anche in parte di diritto, uno strumento di selezione che si basa sui comportamenti. Quindi attenzione, perché la residenza te la devi un po’ guadagnare, la puoi avere soltanto se ti comporti in un certo modo, se non occupi ad esempio; se vivi in strada devi sottostare a determinate regole.  È interessante proprio questo punto perché, in teoria, tutt’ora, io dovrei consegnare semplicemente una dichiarazione al Comune di residenza o di domicilio se sono senza dimora, ma in realtà sono costretto/a a fare qualcosa: il sentire comune è talmente diffuso che non soltanto persone comuni, ma gli stessi operatori anagrafici, anche avvocati, operatori-operatrici pro-migranti, a esempio, dicono “non mi è stata concessa la residenza”. Inconsapevolmente riproducono questa visione alterata del percorso formale.
La residenza è un diritto soggettivo perfetto, non è una concessione, io dichiaro uno stato e se lo stato è appurato come vero, allora segue un atto che sancisce la mia registrazione formale.

MP: sì, è una distorsione interiorizzata ormai.

EG: totalmente interiorizzata. Basti pensare che dal 2007, ovvero da quando l’Italia ha recepito la Direttiva Europea sulla libertà di circolazione, le persone europee non sono sottoposte a un permesso di soggiorno o a regimi di visti, ma hanno un regime d’iscrizione speciale; nonostante questo, in particolare nei confronti delle persone rumene e bulgare la normativa non è applicata. Mi è capitato di parlare con una persona di un CAF a Roma, di origine rumena, che chiedeva informazioni per un’amica a sua volta rumena o moldava. Questa persona del CAF ha chiesto: “ma a lei interessa la residenza come permesso di soggiorno o la residenza come anagrafe?”. Io sono rimasto sbalordito e ho pensato fosse geniale, perché sul piano giuridico ha detto una mostruosità ma sul piano pratico e della posta in gioco ha detto esattamente quello che è.  Per loro l’assenza di residenza non è direttamente motivo di espulsione ma configura una forma di irregolarità nel territorio che può portare a un’espulsione. È talmente radicata questa percezione che se non hai la residenza non puoi stare; non mi sorprendo quando alcuni Comuni pensano di poter cacciare le persone che non hanno la residenza perché il loro potere si estende anche a questo.

MP: il sentire comune che non ammette un modo che non sia quello canonico, prevalente o più comune dell’abitare. Se vivi in una casetta di legno auto costruita sei così considerato un abusivo, uno non meritevole di residenza tanto che vieni eventualmente anche chiamato dall’assistenza sociale a dimostrare di essere meritevole. Ci vedo molto anche del paternalismo italiano.

EG: sì, Milano è emblematica. Il Naga lo sa benissimo, ho partecipato al vostro rapporto nel 2019 in cui si evidenziava che a Milano la riforma di Maroni del 2009 che aggiunge questa locuzione subdola “le persone senza dimora che si iscrivano dichiarando il proprio domicilio devono dimostrare l’effettività del domicilio” è stata interpretata con la presa in carico da parte dei servizi sociali nei confronti dei senza fissa dimora. A quel punto i servizi sociali iniziano a ricattare. Milano ha aperto anche a soggetti del terzo settore, quindi soggetti illuminati come il Naga che disinnescano questo meccanismo, altri invece possono invece approvarlo. Non è scritto in nessuna norma, in nessun regolamento attuativo in cui vengono nominati i servizi sociali come attore anagrafico. L’Istat, le Prefetture, i Comuni, sì.  Non ci sono né i Servizi Sociali né le Questure; eppure, alle volte si fanno i tavoli coinvolgendo la Questura o si usano i Servizi Sociali come se fossero gli arbitri di tutto. Questo fa emergere la logica paternalistica, la tensione aiuto-controllo, il classico dilemma del Servizio Sociale. Ti sto aiutando o ti sto controllando? Ti sto controllando in questo caso, non soltanto controllando la tua presenza sul territorio obbligandoti a venire qui tot volte alla settimana o al mese, come accade a Firenze, pena la cancellazione; ma anche modificando le tue condotte, obbligandoti a stare buono.

MP: andiamo all’ultima domanda. Vorrei che mi parlassi della Legge 80 del 2014, il famosissimo e già citato Piano Casa Renzi-Lupi, in particolare l’art. 5, che impone il divieto a chi occupa abusivamente un immobile di ottenere la registrazione anagrafica e l’allaccio ai servizi pubblici come acqua e gas. Abbiamo visto anche un precedente importantissimo, ovvero la deroga a questo articolo 5, operata dalla Giunta del Sindaco Gualtieri a Roma nel novembre 2022. Ci puoi spiegare meglio? Questo è un precedente che può aiutare e può tracciare una strada per il ripristino del diritto alla residenza, e quindi la possibilità che le cose possano effettivamente cambiare?

EG: brevissimo inquadramento storico. Il Decreto Renzi-Lupi nasce in un contesto in cui, dopo la crisi economica del 2008-2009 e a seguito dell’emergenza Nord Africa, era aumentato il numero di occupazioni, sia da parte di persone italiane in condizioni di povertà (senza un reddito per potersi permettere affitti crescenti in città sempre più gentrificate), sia da parte di richiedenti asilo, spesso su indicazione delle stesse autorità di polizia che non sapevano dove metterle. Questo lo dico per rendere giustizia alle dinamiche organizzative – istituzionali. Cosa è successo subito dopo l’introduzione delle restrizioni legate al Decreto Renzi-Lupi? Il Ministero è intervenuto con due Circolari per smussare; oltre a definire meglio cosa si intende per occupazione abusiva, ha detto “Attenzione! Le persone devono comunque essere registrate come senza dimora”. In altre parole, ha chiarito che chi è in un’occupazione non può essere registrata presso quella occupazione, ma deve essere registrata presso un indirizzo virtuale, come se fosse senza dimora. Questo ha creato ovviamente degli scompensi e dei problemi; nel 2017 arriva il Decreto Minniti-Orlando che, tra le tante cose discutibili, ne fa una interessante: introduce una deroga secondo cui le persone meritevoli di tutela devono comunque essere iscritte all’anagrafe, anche se occupano, e non definisce cosa significhi “meritevole di tutela”. Gualtieri ha semplicemente applicato questa deroga introdotta nel 2017, non ha introdotto un cambiamento alla normativa anagrafica, ha semplicemente dato seguito a una previsione normativa. Il passo successivo è stato la definizione di “meritevoli di tutela”: la cosa interessante è che non contempla soltanto le categorie canoniche – persone con problemi psichiatrici, bambini ecc., ma anche le persone povere. Introduce quindi il criterio per cui chi è povero è meritevole di tutela. Questa cosa ha tirato fuori il peggio della stampa capitolina legata al mondo del mattone, sappiamo tutti di chi stiamo parlando. Ha inoltre sollevato una serie di reazioni politiche e istituzionali, tant’è che sono stati convocati tavoli che hanno coinvolto anche le Questure. Gualtieri è stato obbligato a emanare una Circolare che specificasse meglio, introducendo una serie di paletti. Complessivamente possiamo dire che tutta l’operazione è molto coraggiosa, di giustizia sociale e assolutamente interessante dal punto di vista normativo, da spingere. Siamo nella fase applicativa, ancora il quadro del monitoraggio va portato avanti, ci sono sicuramente mille resistenze, però, politicamente è un’iniziativa che, ripeto, NON COSTITUISCE UN’INNOVAZIONE/VIOLAZIONE DELLA LEGGE MA UN’APPLICAZIONE DELLA LEGGE. Politicamente segnala un punto di svolta. Qui lo dico come considerazione personale, soprattutto a quei Comuni amministrati da Giunte che si autodefiniscono di sinistra e di centro-sinistra: se siete i Sindaci e le Sindache democratiche da contrapporre ai Sindaci e alle Sindache non democratiche, fatela una cosa democratica e quindi eliminate questi paletti.

MP: applicate bene la normativa!

EG: applicate la normativa, basta applicare la normativa! È indicativo che a Roma si è arrivati a questa cosa grazie a un’iniziativa dal basso.

MP: spiegami come si è arrivati a questo punto a Roma? Quale è stato il ruolo della Società Civile?

EG: fondamentale è il ruolo del movimento per il diritto all’abitare, nelle sue varie declinazioni, in particolare alcuni gruppi (Blocchi Precari Metropolitani e altri soggetti) che da anni insistono su questo punto. Recentemente queste soggettività più legate al movimento e alcuni attori della società civile organizzata riconducibile al mondo delle Ong, della Cooperazione, del Volontariato si sono riunite a una sorta di tavolo più o meno formale. ActionAid ha avviato questo percorso, ma non vorrei dimenticare altri, per esempio Nonna Roma, ci sono vari soggetti coinvolti… un po’ alla volta si sono elaborati documenti, portate avanti interlocuzioni e riflessioni sia con il Comune, sia con il Ministero. Questo modello, mi permetto, e tutta questa rete di cui faccio parte ne è convinta, andrebbe replicato in altre città. Sarebbe bello iniziare dalle città con Sindaci in sintonia, almeno sulla carta. Penso a Torino, a Milano… aggiungete voi. Non è difficile farlo. Si può partire con delle mobilitazioni dal basso, anche semplicemente sotto forma di lettere inviate alla macchina comunale, firmate da più soggetti e interloquire dove ci siano un minimo di sponde politiche per provare a realizzare questo piccolo cambiamento sul piano formale. Questo sarebbe fondamentale, perché se i Comuni più grandi di Italia facessero da apripista, sarebbe una bella spinta per abbattere l’articolo 5 a livello di normativa. Soprattutto per ripensare l’anagrafe, ripensare il legame anagrafe-esercizio dei diritti e sganciare l’esercizio dei diritti da forme di registrazione rigide come l’attuale. Ripensare lo strumento: sia dal punto di vista della conoscenza statistica-amministrativa sia dal punto di vista dell’esercizio dei diritti è uno strumento problematico, se vogliamo anche forse anacronistico. Non è così rivoluzionario dire, parliamone! Se si cominciasse dall’articolo 5 a livello comunale e si salisse a livello statale forse si potrebbe poi aprire un tavolo di ragionamento di più lungo periodo, un po’ più ambizioso.

MP: Enrico, ti ringrazio e ti aspetto prossimamente a Milano per proseguire questo ragionamento. Grazie a tutti.

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