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Intervista – Jacopo Anderlini e Enrico Fravega

Jacopo Anderlini e Enrico Fravega
Ricercatori e curatori del volume Crocevia Mediterraneo – Equipaggio della Tanimar, Elèuthera, Milano 2023

Un mare di contraddizioni.
Un mare di morti 

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Enrico Fravega: Buongiorno a tutte e a tutti io sono Enrico Fravega, ricercatore all’Università di Genova. Con Jacopo abbiamo collaborato in passato e ora stiamo collaborando a questo progetto che coinvolge le nostre università, che sono Genova e Parma, ma molte altre come Milano, Padova e Napoli.

Jacopo Anderlini: Io sono Jacopo anderlini, ricercatore all’università di Parma. Con Enrico abbiamo condiviso anche un periodo assieme a Genova, quindi per noi è una conoscenza di lungo periodo che, tra le altre cose, è sfociata anche in questo libro.

Emilia Bitossi: Grazie. Veniamo a questo progetto e vi chiediamo di spiegarci come mai è partito. Cosa ha spinto università diverse fra loro a lavorare insieme su questo progetto?

JA: Questo viaggio di ricerca che poi ha avuto come esito, tra gli altri, questo volume è un progetto (MOBS- Mobility solidarity and imaginaries across the Borders) finanziato dal ministero dell’Università e della ricerca. Si tratta appunto di un progetto che vede coinvolti 5 atenei italiani, 5 gruppi di ricerca afferenti a 5 atenei italiani che sono l’università di di Genova, l’Università di Parma, l’Università di Padova, Milano statale e Napoli l’orientale. Quindi diciamo una serie di équipe piuttosto composite che si occupano di mettere a tema quello che è lo spazio di transito italiano. Cioè l’Italia come spazio di transito attraversato da diverse forme di mobilità legate alle migrazioni. Prendendo come punti focali diciamo così quattro macro dimensioni. Lo spazio marittimo, lo spazio montano e alpino, lo spazio urbano e lo spazio rurale, svolgendo una riflessione sulle mobilità e sul modo in cui i confini articolano questa mobilità lungo quello che chiamiamo spazio di transito italiano, analizzando diversi casi di studio, seguendo i metodi della ricerca sociale di tipo qualitativo. In particolare molti di noi impiegano il metodo etnografico che unisce all’osservazione di un contesto sociale nel mentre che si dispiega anche una partecipazione nel contesto sociale stesso. È un po’ da queste prospettive che muove poi il lavoro specifico che ha dato vita al libro. Non so se Enrico vuole aggiungere qualcosa.

EF: Nello specifico il libro poi è un diario di bordo sociologico che nasce da questa idea di pensare il Mediterraneo da dentro il Mediterraneo cioè da dentro uno spazio marittimo. Un esperimento, perché implicava una scrittura collettiva, cioè molti pezzi sono a più mani, non è una scrittura accademica, ma una scrittura di viaggio in cui noi solleviamo degli interrogativi e ci interroghiamo su tutta una serie di trasformazioni sociali che vanno anche oltre il tema delle migrazioni in se stesse e però si connettono le une alle altre. Abbiamo dato forma di libro a una riflessione su tutte queste dinamiche di cambiamento sociale economico politico che stanno attraversando uno spazio che è considerato solo o principalmente per la sua collocazione turistica. Sono posti di vacanze e/o per le notizie di cronaca sulle migrazioni, sul confine che uccide, sui morti in mare, ma tutti questi aspetti non vengono mai messi in comunicazione tra loro, quindi questo libro ha anche l’ambizione di portarci a riflettere sul fatto che in questo spazio tutte queste dinamiche stanno accadendo assieme nello stesso momento.

EB: Leggendo il libro ho messo in evidenza alcuni concetti che vi dirò in pillole e sui quali mi piacerebbe che voi faceste un approfondimento. Il primo tema che ho sottolineato è quello della memoria come testimonianza. Mi ha molto colpito la visita al museo degli oggetti a Lampedusa, un museo messo insieme dal collettivo Askavusa che in realtà è una raccolta di oggetti che testimoniano presenze vive o morte, accompagnato da questa citazione di Benjamin che è molto bella. “ Come ogni generazione che ci ha preceduto ci è stata data in dote una forza messianica su cui il passato ha un diritto” che può spiegare tutto questo.

JA: Sicuramente quello della memoria è un tema che ha attraversato un po’ tutto il lavoro, più che altro il nostro viaggio. Ci siamo mossi da un’isola all’altra del Mediterraneo in un momento in cui si stavano svolgendo anche le commemorazioni del naufragio del 3 ottobre 2013 al largo delle coste di Lampedusa e quindi il tema della memoria, ma anche le politiche della memoria che vengono poi messe in campo dai diversi attori, che siano le istituzioni che siano le associazioni che se ne occupano era un tema che emergeva sempre di più. Siamo abituati a pensare alle migrazioni come a un fenomeno legato all’emergenza. Le migrazioni vengono sempre trattate come un fenomeno da governare nell’immediato per cui non è possibile pensare a una progressione temporale ma neanche a una storia di queste migrazioni. Il tema dell’emergenza e della crisi è un po’ il tema che accomuna questo tipo di narrazione, ma anche il modo in cui le pensiamo;  allora rimettere al centro la memoria per noi ha un significato non solo epistemologico, dal punto di vista dell’analisi, ci aiuta a mettere in prospettiva quello che è il fenomeno migratorio, ma è anche un gesto politico perché significa depresentificare lo sguardo e cercare di ricomprendere quello che è passato, quello che chiamiamo il non ancora, oppure quello ancora da venire, il passato che non si è compiuto, quel tipo di immaginario che veniva portato con sé… pensiamo a tutti gli oggetti che sono raccolti nel museo di Lampedusa, che ci parlano di un desiderio di un’Europa o di una vita migliore. Metterli al centro significa cercare di ricostruire la trama delle storie che compongono questi attraversamenti da un lato e dall’altro, ridare voce a queste persone che hanno effettuato il transito, o hanno tentato di effettuare il transito e non sono riuscite a portarlo a termine. Questo penso che sia il punto cardine.
Questa è stata la nostra ispirazione ovviamente con grande umiltà. Certamente di fronte a Benjamin tutti facciamo un passo indietro. Enrico vuoi aggiungere qualcosa?

EF: Sì una piccola cosa a complemento di quello che diceva Jacopo. Io credo che questo libro ci parli anche di come il dispositivo confinario non agisca solo su un piano materiale di creazione di barriera, ma agisca sulla nostra capacità di ricordare il passato e immaginare il futuro. Mi spiego, la politica della memoria è centrale nella costruzione del Confine. L’abbiamo visto a Lampedusa per esempio in queste celebrazioni del naufragio in cui sono morte centinaia di persone, quel giorno politicamente viene assunto come un giorno in cui si celebrano le vittime delle migrazioni, in cui si ricorda questa cosa e noi ci siamo trovati di fronte a un apparato di spettacolo molto importante e a una platea di questo spettacolo composta di giovani da tutta Europa, molto bella. Quindi con tutta un’idea di una valenza anche pedagogica e didattica su cui convergiamo totalmente. Però questa politica dello spettacolo impediva di vedere il presente perché nello stesso momento in cui questa celebrazione prendeva corpo attraccava una barca di una Ong portando in salvo 88 persone di cui 66 minori indicativamente dei sedicenni della stessa età delle persone che erano presenti allo spettacolo del racconto di quel naufragio, in una cornice in cui la parola più evocata era “mai più”, ma quel mai più impediva di vedere il fatto che questa cosa sta succedendo ancora e questo di nuovo l’abbiamo visto anche in parte a Pantelleria dove il dispositivo del confine e la creazione di un hotspot che impedisce il contatto tra la popolazione locale e le persone che arrivano dal mare fa sì che tutta una serie di storie di incontro legate per esempio a Pantelleria e ad altri naufragi venga dimenticata. Quindi il confine agisce anche sul piano culturale facendoci dimenticare cose e mostrandone altre con un meccanismo di tipo teatrale di luce e ombra, di gioco di scena, di costruzione della scena, di retroscena che agisce anche su tutti noi e anche su chi è lontano dal confine.

EB: Ne approfitto per agganciarmi proprio a questo discorso ricordandovi un’altra parola chiave del libro che è: contraddizioni. Il libro mette in rilievo tantissime contraddizioni. Per fare qualche esempio: questo controllo in mare, questo dispiegamento di polizia per salvare vite, proprio questo controllo in realtà è uno dei motivi per cui non si riescono a salvare le vite, anzi le persone si mettono ancora più in pericolo per evitare il controllo perché sanno che non è loro favorevole. Quella che voi nominate come la necropolitica del Mediterraneo, usando questo termine molto significativo. Quindi più polizia in mare è uguale a più morti . Faccio un altro esempio: lo Stato che lavora per dividere e poi riunire… vengono divisi gli uomini dalle donne, vengono divisi i bambini dalle madri e poi però c’è un operatore successivamente che cerca di riunire e ritrovare i legami familiari. E poi un’altra cosa che ho notato ovvero la tensione fra il diritto costituzionale e le politiche di uno stato sempre più sicuritario dall’altra parte.

EF: Diciamo che questo è un elemento che ha colpito tantissimo anche noi, nel senso che ci immaginiamo uno Stato che dispiega delle politiche razionali, ma non siamo in questo scenario. Secondo me il confine è un luogo dove tutte queste dinamiche emergono con particolare evidenza, quindi ci sono le contraddizioni che hai segnalato tu. Ci sono contraddizioni nei modelli di sviluppo. Ci sono contraddizioni nel modo in cui le politiche si dispiegano. Ci sono contraddizioni nell’azione delle stesse istituzioni. Le istituzioni sono dei campi aperti dove le diverse concezioni della società e dello Stato si misurano l’una con l’altra e sono tutte presenti sul campo e questo credo che sia un dato di realtà su cui bisogna prestare attenzione. Abbiamo provato a tirar fuori alcune di queste storie, di queste tensioni, di queste contraddizioni.

JA: Penso che anche nel montaggio del libro, che è fatto un po’ a giornate, a stanze se vogliamo, abbiamo cercato di rendere, questa dimensione che riportava Emilia, delle contraddizioni molto forti, contraddizioni che noi, quando studiamo le forme di mobilità, non solo umana, incontriamo costantemente e uno dei macrotemi è il modo in cui differenti mobilità umane vengono trattate, vengono gestite in questi stessi spazi che sono le isole, che sono mobilità migranti e mobilità legate al turismo. Quindi abbiamo da un lato il turismo come forma economica che in questi luoghi si manifesta come un turismo di tipo estrattivo, nella misura in cui come siamo abituati a vedere in tante forme economiche nel capitalismo contemporaneo c’è una monocultura, questa forma economica è particolarmente redditizia, dove tutto uno spazio, tutto un territorio verrà dedicato a questo tipo di attività. Malta è un caso particolarmente chiarificatore. Anche se a Malta anche la finanza ha un grande ruolo, come paradiso fiscale. Comunque la dimensione turistica è una dimensione decisamente dominante, quindi la mobilità legata al turismo è una mobilità che viene tutelata e anche incoraggiata. Abbiamo numeri molto alti di turisti che arrivano su queste isole con un impatto non irrilevante in termini anche ambientali. Dall’altro lato abbiamo masse di umani, il fenomeno migratorio, che arrivano e non sono assolutamente interessate a fermarsi in questi posti e che però vengono non solo osteggiate, non solo represse, ma anche rappresentate come persone pronte a invadere i sacri suoli europei e qui vediamo un’estrema contraddizione. Il punto non è mai solo la mobilità e le forme di mobilità, il punto è quali forme di mobilità vengono in qualche modo favorite e quali vengono osteggiate. Per quali ragioni questo succede,  lo abbiamo messo a tema. Una dimensione quella economica che guida molte delle scelte degli Stati, molte delle politiche degli Stati sulla gestione delle migrazioni, come diceva bene Enrico. È però anche errato guardare a questi attori sociali come a degli aggregati monolitici, non ci dobbiamo immaginare lo Stato come un blocco che agisce e prende decisioni in maniera singola, ma come un’arena, un campo sociale attraversato da diverse tensioni. Ci sono diverse culture dello Stato.

EB: A proposito di questo faccio solo una piccola interruzione. Il fatto che appunto non esiste lo Stato come qualcosa di monolitico ma è tutto frammentato mi fa venire in mente quando in uno dei capitoli appunto si parla del fatto che non c’è mai una visione di insieme perché le persone sono sempre presenti per brevi periodi, fanno i turni. La polizia fa dei turni sull’isola. Quindi ora che le persone capiscono cosa stanno facendo se ne vanno  e  arriva qualcun altro. Non c’è nessuna continuità, nessuno ha una visione d’insieme.

JA: Questo è un buon esempio che ci aiuta a capire in quale modo funziona la macchina del Confine nella pratica e che ci sono diversi attori, alcuni che rispondono direttamente al ministero degli Interni, altri che rispondono ad altri ministeri come quello delle Infrastrutture dei trasporti per esempio. Quindi abbiamo la Guardia di Finanza, la capitaneria di porto che occupano quel tipo di spazio, la sorveglianza e il controllo delle acque territoriali e hanno indicazioni diverse, hanno tempi di permanenza diversi su quei territori. È chiaro che meno una persona ha tempo di familiarizzare diciamo così col contesto sociale in cui si trova più applicherà gli ordini alla lettera. Mentre noi siamo abituati a vedere in quella che chiamiamo Street level burocracy, cioè nell’applicazione delle norme, un certo grado di discrezionalità, che è anche quella che ammorbidisce la norma, perché la realtà sociale è sempre molto più complessa delle rappresentazioni legali e o amministrative. Quel tipo di dimensione di discrezionalità, che in questo caso è positiva, non si può dare perché non c’è uno spazio materiale in cui le interazioni possono svilupparsi. Poi c’è un altro punto che non possiamo dimenticare che comunque questi organismi funzionano in maniera gerarchica. Quindi la Guardia di Finanza ha degli ordini ben precisi su come ingaggiare le navi in distress su come fare la valutazione di che cosa è un’imbarcazione in distress, cioè a rischio di naufragio e che cosa non lo è. Così come la Capitaneria di porto, la guardia costiera. Dentro questo spazio poi agiscono i singoli ufficiali, e i sottoufficiali, che poi producono tutte quelle contraddizioni ma anche quelle problematiche tragiche che abbiamo visto come nel caso della strage di Cutro, il cui anniversario ricorre proprio in questi giorni.

EB: Arriverei a un ultimo punto anche perché non abbiamo ancora molto tempo. Ho messo in evidenza il concetto, forse uno dei più importanti, della non accoglienza. Da una parte la chiusura dei migranti all’interno degli hotspot, e dall’altra parte la contraddizione legale in quanto il reato di immigrazione clandestina non può essere punibile con la reclusione, essendo un reato contravvenzionale.

EF: Questa non accoglienza si traduce in una situazione paradossale in cui le persone sono intrappolate in questi luoghi, senza possibilità di uscire o di essere trattate in maniera adeguata dal punto di vista legale. È una realtà che mette in luce l’assenza di una risposta umanitaria e la prevalenza di politiche di sicurezza che mirano più alla repressione che alla protezione dei diritti umani. Questo tema della non accoglienza è centrale nel libro perché evidenzia le contraddizioni e le ingiustizie del sistema attuale di gestione delle migrazioni, che priorizza la sicurezza e il controllo a discapito della dignità e dei diritti fondamentali delle persone. In conclusione, il libro si pone come una riflessione critica sulle politiche migratorie europee, evidenziando le contraddizioni, le tensioni e le ingiustizie presenti nel modo in cui vengono gestite le migrazioni nel Mediterraneo e oltre.

JA: Proprio all’inizio del libro, viene interrogata Franca, una volontaria che ha lavorato intensamente con i migranti, e che ci ha fornito un prezioso contributo. Lei parla di come è cambiata l’accoglienza, passando dall’approccio artigianale a quello chiamato diaframma istituzionale. Questo attraverso procedure burocratiche che pongono una barriera tra i migranti e coloro che offrono l’accoglienza. Franca spiega che questa trasformazione impedisce il contatto umano tra i migranti e la comunità locale. Ad esempio, a Pantelleria si notava un certo grado di contatto tra volontari e migranti prima della costruzione dell’hotspot, che ora separa e disumanizza i migranti, impedendo il contatto umano. Questo porta a percepire i migranti come una minaccia, anche se non c’è una reale presenza di essi nei luoghi in questione. Franca evidenzia la discrepanza tra la retorica dell’accoglienza e la realtà dell’esclusione, come nel caso di Lampedusa, dove nonostante la narrativa storica di accoglienza, i migranti vengono rinchiusi e poi allontanati senza possibilità di incontro con la comunità locale.

EF: Vorrei aggiungere che, nonostante gli sforzi delle autorità per gestire gli arrivi, a Lampedusa si è verificata un’eccezione durante la quale l’ingente numero di migranti non poteva essere accolto dall’hotspot sovraffollato. Ciò ha portato a un’iniziativa spontanea di solidarietà da parte della comunità locale, che ha organizzato mense autogestite per aiutare i migranti. Questo contrasto tra esclusione strutturale e incontro spontaneo evidenzia la funzionalità dell’esclusione nel controllo della mobilità, come nel caso dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), che rappresentano l’ultimo stadio dello Stato d’eccezione.

Ringraziamenti e chiusura dell’intervista

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