
Il Gruppo Psicologhe
L’assistenza sanitaria che offriamo non si esaurisce nella cura del corpo. Il contatto quotidiano e diretto con le cittadine e i cittadini stranieri ha reso evidente la necessità di strutturare un servizio di consulenze psicologiche all’interno del Naga. Nel servizio sono impegnati circa otto psicologhe e psicologi volontari che attuano una presa in carico congiunta con il personale sanitario in caso di patologia psichiatrica.
Per chi è abituato alla psicoterapia da studio privato – con suoi larghi divani e i silenzi ovattati – o a quella da ambulatorio ospedaliero con i suoi protocolli e i suoi spazi asettici – vedere i pazienti al Naga è una grande infusione di umanissimo caos. Nei primi colloqui lo spazio-tempo è fluido: c’è chi arriva due ore prima del colloquio e chi a dieci minuti dalla fine, chi porta l’amico traduttore e chi a colloquio allatta il suo bimbo, chi non sa cosa domandare alla terapia e chi chiede troppo, chiede una salvezza dolorosa da sostenere.
In questo contesto, il nostro ruolo si estende spesso oltre la psicoterapia. Ci accomuna a molti altri volontari il fatto di divenire con grande facilità per chi arriva al Naga l’unica figura di attaccamento o di riferimento in Italia. Siamo ascoltatrici, ma anche “ponti”: tra il paziente e gli avvocati, i medici, gli assistenti sociali, gli altri sportelli dell’associazione o le strutture esterne. Facciamo da cerniera, da traduttrici non solo linguistiche ma anche simboliche, tra esperienze di vita radicalmente diverse e un sistema spesso percepito come inaccessibile.
Non possiamo dimenticare che molte delle persone che incontriamo vivono una quotidianità profondamente precaria dal punto di vista legale, lavorativo ed esistenziale. Questo si traduce spesso in impedimenti concreti alla partecipazione regolare al percorso di terapia, (appuntamenti mancati, sedute improvvisate, difficoltà logistiche…), ma anche in una singolare e generosa apertura al rapporto terapeutico, quella di chi magari, dopo tanto migrare, trova finalmente un posto al sicuro.
Incontriamo tutte le declinazioni della sofferenza, l’ansia e la depressione, i disturbi psicosomatici o l’abuso di sostanze, le dinamiche relazionali complesse, ma ciò che torna ricorsivamente nelle nostre valutazioni è il disturbo post traumatico da stress (PTSD) cumulativo e reiterato. I migranti affrontano traumi pre‑migrazione come persecuzioni, violenze o torture, traumi durante il viaggio quali detenzione, abusi o condizioni estreme, e traumi post‑migrazione legati a precarietà abitativa, instabilità legale, discriminazione e separazione familiare. Questa concatenazione di esperienze traumatiche – spesso ripetute e sovrapposte – genera un rischio molto elevato di PTSD complesso nei migranti e richiedenti asilo con tassi di prevalenza ben superiori a quelli nella popolazione generale.
Da terapeute, un aspetto particolarmente delicato è quello dell’implicita (talvolta esplicita) dimensione politica del nostro lavoro. I pazienti lo sanno, e lo sappiamo anche noi: se siamo al Naga è perché condividiamo una causa, perché riteniamo che i diritti umani e la dignità vadano difesi anche attraverso il nostro lavoro. Questa alleanza implicita da preziosa risorsa per il paziente, può anche rovesciarsi in una forma di vittimizzazione involontaria: l’enfasi continuativa sul trauma può spostare l’identità della persona da soggetto a oggetto del dolore, rischiando di validare più le ferite che la capacità di resistere e ricostruire.
Ma il Naga è anche un promemoria vivente al fatto che fare psicoterapia, in ogni contesto, è sempre anche un gesto politico. Non si fa terapia senza prendere posizione. Non tanto (o non solo) a livello ideologico, ma riconoscendo sempre che il disagio psichico si radica nei sistemi sociali ed economici. Come ricorda Frantz Fanon il trauma psichico nei contesti coloniali (e postcoloniali) è inseparabile dall’oppressione sistemica e il lavoro clinico, se vuole essere etico, non può esimersi dal riconoscere le sue radici politiche. Quando un paziente ci parla della sua sofferenza, ci racconta anche – direttamente o indirettamente – delle frontiere, delle attese in questura, degli abusi subiti, dell’indifferenza burocratica. Qui al Naga accogliere questi racconti, dar loro dignità e senso, significa anche restituire al paziente una voce, un potere narrativo, una forma di resistenza.