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I luoghi e le Persone – Il triangolo dell’incoerenza

Tracce di vita. Una biciclettina da bambino, alcune lenzuola stese, masserizie varie buttate qua e là.

 

“… ma il tentativo di occupare e autogestirsi è sicuramente una delle strade percorribili per evitare di dormire sotto un ponte”. Così finiva il nostro resoconto nel FuoRivista di luglio e da qui ripartiamo per sottolineare come nulla sia cambiato, se non in peggio. Sempre più persone, infatti, dormono sotto un ponte. Hanno, per necessità, affinato un’ottima capacità di resilienza. Questa volta decidiamo di recarci in un insediamento informale situato sotto un cavalcavia. Questa postazione è strategica, perché si trova a pochissima distanza da due centri di accoglienza stracolmi di ospiti, uno dei quali in predicato per ritornare a svolgere la triste funzione che aveva un tempo. Anche se Minniti gli ha dato una spolveratina chiamandolo in un altro modo ‒ Centro di Permanenza per i Rimpatri (CPR) ‒ sempre quello sarà: un centro di identificazione ed espulsione. Ma torniamo al nostro cavalcavia e soprattutto alla parte sottostante, dove si notano brandine, tende, giacigli vari. Poche le persone presenti in quel momento. All’improvviso siamo distratti dall’arrivo di due auto nere, da cui scendono alcuni uomini a perlustrare il terreno. Un geometra ci comunica che sono previsti lavori di manutenzione e quindi la zona sottostante il cavalcavia va sgomberata. Il crollo del Morandi insegna e la paranoia è giustamente dilagante. Nulla sanno gli ignari abitanti di quella zona, normalmente abbandonata a se stessa, recintata da una staccionata fatta in cemento armato.

Uscio e bottega. Ottenuta la protezione umanitaria ‒ quella che con un colpo di spugna l’attuale ministro dell’interno ha deciso di cancellare per aumentare le fila dei migranti senza documenti, destinati a rinfoltire la già amplissima schiera dei cosiddetti “invisibili”‒ il malcapitato, quand’anche gli sia stata fatta dal CAS la richiesta per un posto nello SPRAR, si ritrova dopo pochi giorni in mezzo a una strada perché è questo che il sistema prevede. Ed ecco l’incredibile comodità di trovarsi pronto un posto letto a pochi metri di distanza: vista piloni tangenziale, un po’ umido, ma protetto dalla pioggia. Brandine en plein air. Via vai di ospiti dei CAS vicini per dare una mano, portare notizie, qualche genere di conforto. Sostanzialmente tre i gruppi presenti, divisi rigorosamente per paesi di provenienza. Afghani con afghani, pakistani con pakistani e gambiani in un’altra zona poco distante. I due CAS più vicini ‒ ce ne sarebbe addirittura un terzo poco più distante ‒ sono le ancore di salvezza, il contatto con il mondo per queste persone. Drappelli di ragazzi escono al mattino presto dal centro di accoglienza per verificare che gli “altri”, quelli “fuori”, siano ancora là. Non siano stati sgomberati altrove. In realtà chi sta subendo lo sgombero in questi mesi sono proprio gli ospiti del centro destinato a diventare il CPR di Milano. Ormai da ottobre decine e decine di loro sono state mandate altrove, anche in altre città e regioni italiane. Non c’è dubbio: le reti che si creano tra il dentro e il fuori sono precarie, fragili. Le noti solo se decidi di notarle. Basta un colpo di spugna per far sparire tutto. Peccato che dietro tutto ciò ci siano persone che faticosamente cercano di orientarsi, di crearsi dei punti fermi in un mondo a loro ignoto e di costruirsi una vita.

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