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Intervista – Intervista a Silvia Stefani

Un welfare a macchia di leopardo  

Silvia Stefani: Antropologa, Università degli studi di Torino.

In un suo articolo lei parla del “fenomeno dell’homelessness” analizzandolo nel contesto della città di Torino che, ci spiega, è uno scenario più virtuoso di altri. La città di Milano, da questo punto di vista, non è sicuramente virtuosa, avendo iniziato a riconoscere la residenza anche ai senza fissa dimora solo di recente, e avendo escluso da molte misure di supporto in questa fase di emergenza covid -19 moltissimi soggetti, proprio perché non residenti. Come mai il “fenomeno dell’homelessness” non rientra in un discorso politico comune, e dunque anche in disposizioni nazionali che investano senza difformità tutto il Paese?

Il welfare italiano, in generale, è caratterizzato da una profonda frammentazione: sono notevoli le differenze e disparità tra le politiche sociali attuate dalle diverse Regioni e Comuni. Questa frammentazione è frutto del progressivo decentramento delle politiche sociali, di cui un elemento centrale è stata la Riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che ha affidato a Regioni, Province e Comuni la competenza semi esclusiva sulle politiche sociali. Questo processo ha contribuito all’emersione di un welfare “a macchia di leopardo” in relazione al contrasto all’homelessness: alcuni enti locali non danno alcuna risposta a questa problematica, altri delegano al mondo del volontariato, altri ancora hanno elaborato forme di titolarità pubblica in proposito. Quando ho definito Torino come un contesto “virtuoso” facevo riferimento al fatto che fin dal 1981 la Città ha istituito un ufficio pubblico rivolto a questa frangia della popolazione.
Negli ultimi anni, anche grazie al lavoro di fio.PSD (Federazione Italiana Organismi Persone Senza Dimora) sono stati creati degli spazi di confronto nazionale sul contrasto all’homelessness, che hanno raccolto le expertise locali sul tema sviluppate in questo “vuoto” di direttive a livello nazionale. Nel 2015, un gruppo di lavoro coordinato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che ha coinvolto fio.PSD e dodici città metropolitane, ha portato alla pubblicazione delle Linee di Indirizzo per il contrasto alla grave marginalità adulta, primo documento ufficiale di programmazione nazionale nel settore della grave marginalità adulta. Per la prima volta sono stati definiti dei livelli minimi essenziali dei servizi a livello nazionale ed è stato firmato un protocollo di accordo tra Stato e Regioni, tenute a programmare, concertare e progettare le azioni per il contrasto alla povertà coerentemente con le misure auspicate dal documento. Nel 2016, con l’Avviso 4 il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha stanziato delle risorse per finanziare nell’ambito del PON Inclusione (Programma Operativo Inclusione) proposte di intervento per il contrasto alla grave marginalità adulta che fossero coerenti con le Linee di Indirizzo. Per esempio, per avere accesso a queste linee di finanziamento è necessario che sul territorio comunale sia attiva la procedura per la richiesta della residenza fittizia, vincolo che ha portato diverse amministrazioni ad attrezzarsi a questo proposito. Si può dire quindi che il tentativo di creare disposizioni nazionali per il contrasto all’homelessness sia molto recente e necessiti di ulteriore maturazione.

Come antropologa, ritengo però che alla base dell’assenza di politiche nazionali (e spesso locali) e della delega al volontariato vi siano dei fattori culturali, che consistono nella colpevolizzazione e nella responsabilizzazione individuale dei poveri. Questa concezione ha radici storiche profonde, che hanno trovato nuova linfa nel discorso neoliberale. In Italia, dagli anni ‘90 a oggi si è diffusa una modalità di rappresentare e riflettere su temi svariati che si focalizza sull’individuo, sulle sue potenzialità, capacità e responsabilità. La povertà è stata interpretata in maniera crescente come una questione “privata” piuttosto che come un fenomeno strutturale. Nel discorso pubblico, e spesso anche politico, le persone senza dimora sono velatamente descritte come “colpevoli” della loro situazione o, in alternativa, come “vittime” di situazioni sfortunate: si pensa che non siano state in grado di gestire il proprio denaro, che stiano per strada a causa di vissuti di dipendenza, per problemi familiari, ecc. Non che queste problematiche non siano presenti nelle storie di homelessness, manca però nel discorso pubblico la considerazione delle cause “strutturali” di questo fenomeno: il mercato del lavoro sempre più precario e poco tutelante, la mancanza di politiche di sostegno al reddito adeguate, la riduzione del patrimonio residenziale pubblico.
Ricondurre la povertà a una responsabilità “privata” legittima la mancanza di risposte strutturali e coordinate a livello nazionale: manca l’ethos collettivo necessario a sostenere investimenti pubblici significativi, così che la risposta a questo problema viene delegata a una parte residuale del welfare.
Inoltre, la rappresentazione individualistica permette di occultare, e quindi di mantenere inalterati, i meccanismi alla base della povertà: penso in particolare alla progressiva riduzione delle tutele del lavoro, alle politiche di delocalizzazione degli impianti di produzione, alla proliferazione di contratti “atipici” che alimentano il profitto dei datori di lavoro, ma anche ai cambiamenti del mercato degli affitti nelle città, all’abolizione dell’equo canone, alla reticenza nel tassare la proprietà immobiliare o l’eredità. Questi meccanismi sono favorevoli agli interessi di una parte di popolazione che, però, si riduce progressivamente di numero in ragione dell’impoverimento crescente. Sono equilibri che oggi vanno a discapito della salute, del benessere e della dignità di un numero sempre più ampio di persone.

Come ha già avuto modo di analizzare, l’emergenza attuale non fa altro che esasperare ciò che caratterizza i servizi per persone senza dimora nella loro “normalità”, ovvero il fatto che non siano adeguati a garantire la sicurezza e il benessere delle persone a cui sono rivolti (la condivisione “forzata” della quotidianità con un alto numero di persone sconosciute, la pessima qualità estetica e architettonica delle strutture, mancanza di spazi all’aperto, assenza di luoghi in orario diurno in cui recarsi). Se volessimo fare dello straniamento attuale un’occasione di riflessione e ripensamento, cosa suggerirebbe a proposito dei servizi per persone senza dimora, per superare finalmente la solita prospettiva emergenziale?

Questo momento “eccezionale” in realtà non ha messo in luce solo quanto i servizi di accoglienza di bassa soglia non siano dignitosi né capaci di tutelare la salute delle persone accolte, ha anche evidenziato che alcuni servizi, invece funzionano. Parlo dei servizi Housing First (HF) che da alcuni anni sono stati implementati in diverse città italiane, di nuovo grazie anche all’azione di trasformazione culturale alimentata da fio.PSD. Radicandosi nella concezione del “diritto alla casa”, i progetti HF rispondo al problema dell’homelessness fornendo immediatamente una casa alle persone senza dimora, che contribuiscono a pagarne i costi con il 30% del proprio reddito. La casa diventa la base sicura da cui, insieme all’equipe educativa, le persone possono ricostruire un percorso di inclusione sociale e benessere. In questo momento, in cui il circuito della bassa soglia si è scontrato in maniera anche drammatica con le caratteristiche dei dormitori, è stato evidente quanto l’HF garantisca invece la tutela della salute dei destinatari del progetto e, di conseguenza, della collettività.
Superare la prospettiva emergenziale nel contrasto all’homelessness potrebbe significare dunque investire in maniera sostanziale in progetti che adottino l’approccio HF e fare in modo che i servizi emergenziali siano davvero limitati a rispondere all’emergenza, ovvero offrano risposte tempestive e circoscritte nel tempo e diventino l’accesso per un inserimento in progetti più rispettosi dei diritti e del benessere delle persone. In Italia, l’implementazione del modello HF si scontra però con la difficoltà di accedere al mercato privato degli affitti: i costi degli affitti sono alti, mancano strumenti per tutelare affittuari e inquilini. Molti proprietari preferiscono mantenere vuoti i propri alloggi piuttosto che affittarli a persone che continuano a essere stigmatizzate e considerate marginali. Ci sono diversi modi per incentivare la mobilizzazione delle case inutilizzate, tramite incentivi, ma anche penalizzazioni. Superare davvero la prospettiva emergenziale nel contrasto all’homelessness richiede quindi un cambiamento politico coraggioso e una trasformazione del modo in cui come società pensiamo alla casa: da “bene di proprietà” e “investimento” a “diritto” e “bene di prima necessità”, alla stregua della salute. Credo che le politiche sociali, rivolte alle frange più vulnerabili della popolazione, debbano diventare occasioni per interrogarci sulla società più in generale e per promuovere politiche trasformative che riguardino l’intera collettività. Per sintetizzare: per sostenere la politica sociale dell’HF serve un ripensamento generale dell’insieme di politiche inerenti l’abitare.

Che dire degli operatori dell’accoglienza? Categoria dimenticata, sottopagata e assolutamente fondamentale nella sua funzione sociale e quindi di pubblica utilità. Come potremmo immaginare un loro inserimento più dignitoso e quindi anche più funzionale nell’ambito del non-profit? Ma, possiamo parlare di non-profit parlando di accoglienza?

Questa è una domanda ancora più difficile delle precedenti. Oggi le lavoratrici e i lavoratori sociali sono tra le categorie più sfruttate e meno tutelate del mercato, fatto che si è riconfermato in questo momento di pandemia.
Una prima radice culturale dello sfruttamento è forse da ricondurre, di nuovo, alla svalutazione del lavoro di cura e alla mancata interpretazione dei problemi sociali come problemi “collettivi”, che riguardano tutte e tutti in quanto membri di una società. Il lavoro sociale è poco remunerato anche perché è ricondotto più a “buoni sentimenti” e a una dimensione “vocazionale”, che a una professionalità basata sullo studio, sulla pratica e sull’aggiornamento. Questa è un’interpretazione sviante che ricorre nel discorso pubblico, ma che a volte è introiettata dagli stessi operatori. La dimensione relazionale, il fine sociale del loro lavoro rischia di diventare una trappola che promuove dinamiche di “autosfruttamento” in cui le lavoratrici e i lavoratori accettano di fare straordinari non pagati, adeguarsi a flessibilità non tutelanti e lavorare in situazioni di rischio. Rivendicare condizioni di lavoro tutelanti e dignitose in realtà diventa spesso un fattore che migliora la qualità stessa dei servizi che vengono offerti ai beneficiari finali.
Le pessime condizioni di lavoro delle operatrici e degli operatori sociali sono, inoltre, l’espressione ultima della progressiva contrazione delle risorse destinate alle politiche sociali. Spesso è proprio su questa forza lavoro (e sugli utenti del welfare) che ricadono i costi maggiori di questa sottrazione di risorse. I meccanismi di affidamento dei servizi tramite appalti pubblici dovrebbero basarsi su una valutazione della qualità degli interventi proposti e dell’attenzione rivolta ai diritti e al benessere dell’utenza e della forza lavoro piuttosto che su criteri di risparmio economico, come troppo spesso avviene.
Credo che sia necessario su tutti i livelli, dai posizionamenti che ci troviamo a occupare nella società, pretendere il riconoscimento dell’importanza del lavoro di cura e delle politiche sociali. In questi giorni ho sentito circolare l’espressione: “andrà tutto bene, solo se andrà bene per tutte e tutti”. Ecco: chi lavora nel sociale ha un ruolo importante per promuovere e tutelare un benessere che sia davvero collettivo ed è il momento di riconoscerlo, investendo risorse maggiori nelle politiche sociali e accompagnandole a politiche strutturali coraggiose che riguardino ambiti cardine della società, come l’abitare.

Nel mondo dei senza casa è sempre più preponderante il numero di migranti, irregolari o richiedenti asilo, che non trovano un luogo di accoglienza o sono costretti ad abbandonare le strutture ricettive dopo alcuni mesi. Il mondo dell’accoglienza, come testimoniato anche dal nostro report Senza (S)campo, è sempre più escludente e respingente. L’emergenza covid-19 ha evidenziato ancor di più le debolezze strutturali di questo sistema: da quali punti ripartire, al termine di questo “periodo d’eccezione”, per ricostruire l’accoglienza?

Il numero di migranti costretti a ricorrere ai servizi destinati a persone senza dimora è cresciuto anche a causa dei decreti sicurezza firmati dal ministro Matteo Salvini e non abrogati dal governo attuale. Lo smantellamento della rete di progetti SPRAR ha ridotto in condizioni di povertà, irregolarità e precarietà un numero molto ampio di migranti, mettendo a repentaglio tutte le progettualità, indipendentemente dai risultati ottenuti. Purtroppo, anche tra le persone senza dimora i migranti irregolari occupano una posizione sfavorevole: non possono accedere a molti servizi o misure di intervento e si trovano spesso confinati in situazioni di precarietà senza alcuna prospettiva di uscita. Per “ripartire” penso che sarebbe utile abrogare le leggi – come appunto il decreto sicurezza Salvini – che paradossalmente mettono a repentaglio la sicurezza di molte persone; rafforzare e promuovere la diffusione degli interventi e dei servizi che si stanno rivelando più efficaci per rispondere al problema della povertà estrema, come l’Housing First; elaborare delle politiche più ampie che rendano possibili la realizzazione effettiva di questi modelli di intervento.

2020, pianeta Terra, Italia: esiste un diritto alla casa? È possibile garantirlo? Come?

Certo il diritto alla casa oggi non è garantito, anzi purtroppo proprio l’abitare è visto e adottato in maniera crescente come un’attività o un prodotto finanziario. La crisi abitativa è una problematica endemica nella storia di diversi paesi – penso per esempio al Brasile dove ho fatto ricerca – ma sta diventando sempre di più un problema cruciale anche per l’Italia e l’Europa. Penso che il diritto all’abitare debba in primo luogo diventare un tema di discussione, approfondimento e riflessione collettiva, riuscendo a fuoriuscire dalle cerchie ristrette di chi da anni si occupa di questi temi. Se altri diritti – come il diritto all’istruzione o alla salute – hanno una loro solidità nel discorso pubblico, il diritto all’abitare è qualcosa che deve ancora essere costruito e rafforzato. Come già detto, la casa è vista come un bene di proprietà, qualcosa da “meritarsi”, non come un diritto, né come un bene primario. C’è un pregiudizio diffuso secondo cui chi ha una casa se l’è guadagnata, diversamente da quanto ha fatto chi è in condizioni di homelessness. Questa credenza tralascia di considerare i modi principali in cui oggi in Italia si diventa proprietari di case: attraverso l’eredità, tramite acquisti basati sulle risorse economiche accumulate dalle generazioni precedenti, accendendo mutui che sono possibili a causa della solidità dei patrimoni famigliari. Dove si colloca il “merito personale” nel processo di concentrazione della ricchezza all’interno della stessa famiglia tra le varie generazioni? Mancano letture dei processi strutturali che stanno alla base della distribuzione del patrimonio abitativo all’interno della popolazione.
Se pensiamo che chi ha una casa l’ha meritata, probabilmente crediamo anche che chi non l’ha forse non la merita. Allora forse dovremmo chiederci anche se gli studenti svogliati si meritino di accedere all’istruzione pubblica o se i fumatori si meritino di essere curati con fondi pubblici per il tumore ai polmoni. C’è un cammino culturale da compiere per smettere di pensare alla casa in termini di merito e iniziare a concepirla come un diritto a cui tutte e tutti dovrebbero avere accesso.
Parallelamente, sono necessarie politiche volte a garantirlo materialmente tale diritto, capaci di favorire l’accesso all’abitare per tutte e tutti. Possono contribuire a questo scopo sia politiche “positive”, volte a garantire incentivi per rendere disponibile il patrimonio immobiliare inutilizzato, per sostenere inquilini e affittuari, per promuovere l’ampliamento del patrimonio residenziale pubblico, sia politiche “negative”, che penalizzino il sottoutilizzo delle abitazioni e tassino la concentrazione di più immobili a intestatari unici. Serve un cambiamento politico e culturale volto a considerare la casa come un oggetto “speciale”, più assimilabile a un diritto che a un bene di proprietà.
Forse questo tempo in cui siamo stati confinati dentro le nostre case è servito a far emergere l’insostenibilità delle condizioni dell’abitare di un numero molto alto di persone. Penso a chi si è trovato per strada, a chi in strutture come i dormitori, a chi vive situazioni di violenza domestica e a chi di sovraffollamento abitativo, agli studenti che sono fuggiti da città con affitti insostenibili e a chi è rimasto, ma ha aderito all’iniziativa di sciopero degli affitti #rent strike. Mi auguro davvero che questo momento difficile abbia posto le basi perché come società possiamo promuovere un ripensamento radicale e collettivo dell’abitare in termini di diritto.

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