Fotografia di L. Monte
Parliamo di accoglienza
Ogni giorno ci confrontiamo con la parola accoglienza, con il suo significato, le sue definizioni, e con cosa restituisce a chi la riceve, a chi ne è escluso, a chi la pratica.
Dal punto di vista della definizione istituzionale, negli ultimi sei anni, abbiamo vissuto il susseguirsi di diverse leggi e conseguenti modifiche del sistema accoglienza, da una gestione emergenziale, all’erosione del diritto d’asilo promosso dal “Decreto Salvini” del 2018, fino al recente “Decreto Lamorgese”, che istituisce il nuovo Sistema di Accoglienza e Integrazione – SAI e introduce una nuova protezione speciale, nel tentativo di rispristinare la protezione umanitaria precedentemente abrogata.
La realtà ci restituisce un’accoglienza che ambisce ad essere integrata e diffusa, ma che ancora esclude i soggetti più vulnerabili, ancora spesso si riduce all’albergaggio, che ancora non affronta le problematiche legate alla frammentazione del mercato dell’alloggio e del lavoro, che delega alla volontarietà degli enti locali la tutela dei diritti e l’erogazione dei servizi, che non ricerca soluzioni strutturali. Un sistema che spesso si regge grazie all’ottimizzazione del lavoro degli operatori e alle soluzioni integrative e creative delle organizzazioni della società civile.
Un meccanismo di accoglienza che non riesce (o non vuole?) superare la logica dell’emergenza e che ad ogni scossone sullo scenario geopolitico internazionale (oggi l’Ucraina, pochi mesi fa l’Afghanistan, dal 2011 la Libia…e domani?) mette in luce tutti i limiti di un sistema perennemente provvisorio.
Un’accoglienza che pare svuotata del proprio significato, poiché non è in grado di portare al centro la persona, favorire la sua progettualità individuale e il suo senso di radicamento.
Ha senso chiamarla accoglienza?