Foto: Laura Conti, Madonnina nella roccia, cimitero di San Nicola, Isole Tremiti. L’isola, nota per essere località di confino, ospita a breve distanza un mausoleo libico in memoria dei deportati dei primi del ‘900 e un cimitero cattolico, ancorato allo sperone nord dell’isola.
Fare accoglienza è porsi delle domande?
Quanto il sistema di accoglienza, i progettisti dell’accoglienza, le Istituzioni e i soggetti che nel territorio sono deputati o si sono autocandidati per tale compito (un esempio, il terzo settore che si sostituisce allo Stato Sociale), sono in grado di dare una risposta significativa o almeno in parte orientativa? Quale risposta dà il “sistema di accoglienza” quando il soggetto da accogliere è donna? E quando sono donne richiedenti asilo, spesso vittime di doppia violenza, nel paese di origine e durante il percorso migratorio intrapreso per giungere in Europa, lungo i confini, nei lager libici, nei boschi dei Balcani o negli anfratti delle stazioni dei treni delle metropoli dove in poche finalmente approdano?
La nostra risposta è priva dell’effetto combinato di razzismo e sessismo? Se alle linee di oppressione di genere e razza si aggiunge la linea dell’oggettivazione/soggettivazione di vittima, di corpo-vittima della donna, come cambia lo sguardo di chi accoglie? E quale è la sua risposta?
Qual è la rappresentazione meritevole di asilo, di aiuto? Quanto i codici e le norme patriarcali e paternaliste tarano e condizionano lo sguardo e la risposta di accoglienza? Una donna madre è più meritevole di accoglienza di una giovane donna sex worker senza figli? Una donna nigeriana e una donna ucraina che condizione di status e di bisogno ci comunicano solo attraverso l’immagine dei loro corpi?
Lo sguardo bianco occidentale interpreta e risponde attraverso i codici naturalizzati del colonialismo antico e moderno, del razzismo, del sessismo, del capitalismo e dell’etica borghese. Nessun3 sfugge a tali condizionamenti. È condizionato lo sguardo, è condizionato il cuore, è condizionata la mente e di conseguenza l’azione. L’azione si traduce in risposte che quasi mai sono al servizio della vittima del momento o presunta tale. Il risultato delle azioni (non necessariamente consapevoli da parte di tutt3 l3 attor3 in gioco) è sempre lo stesso: mantenere inalterati gli assi di oppressione.
Occorre rivedere le categorie di analisi e le istanze globalmente condivise, quali l’emancipazione delle donne, la libertà di scelta. Occorre analizzare la radice del significato “prima le donne e i bambini” – imperativi morali – imperativi etici occidentali condivisi. Come sintetizza bene Barbara Pinelli nell’intervista di questo numero, la vulnerabilità loro assegnata è strumentale alla salvezza del codice patriarcale e non alla loro emancipazione.
Sono interessanti e attualissime, seppur poco discusse, le analisi e le proposte delle teorie Queer e Anarca-femministe, entrambe mettono in discussione i processi di normalizzazione che conducono all’esclusione e all’instaurazione di gerarchie, incluse quelle di genere e sessuali. “Per entrambe vale l’antico motto: ogni atto di emarginazione è il mio nemico”. L’anarca-femminismo è esso stesso un femminismo senza archè, ossia un femminismo senza capi e gerarchie prestabilite – incluse quelle sessuali, economiche, politiche e razziali. Non è possibile combattere una forma di oppressione senza combattere al tempo stesso tutte le altre.
Fare accoglienza allora è forse porsi delle domande alle quali non esiste un’unica risposta.