Barbara Pinelli
Ricercatrice e docente di Antropologia dei processi migratori all’Università degli Studi Roma Tre
Lo smalto di Josefa
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Maria Cuomo: Benvenute a tutte e tutti in questa nuova videointervista di Fuorivista, la newsletter del Naga. Ci fa molto piacere avere con noi Barbara Pinelli, docente di Antropologia dei processi migratori all’Università degli Studi Roma Tre, con un interesse in particolare alla violenza di genere nelle migrazioni delle donne richiedenti asilo. Barbara, benvenuta, ti chiederemmo intanto di presentarti.
Barbara Pinelli: Grazie dell’invito, sono molto contenta di condividere con voi alcune riflessioni sul nesso tra violenza e migrazioni forzate delle donne.
Mi occupo di questi temi da molto tempo. In verità sono partita da uno studio ormai molti anni fa sulle politiche di frontiera e sulle ricadute delle politiche di frontiera europee agite soprattutto nel bacino dell’Europa Mediterranea. A un certo punto, ho pensato di provare a dare una declinazione femminista delle politiche di frontiera, e a usare una grammatica di genere per comprendere quelle politiche di frontiera e le loro conseguenze. Con politiche di frontiera intendo non soltanto quelle direttamente agite nelle zone di sbarco ma anche la loro manifestazione continua in un tempo molto lungo, sia all’interno dei circuiti della cosiddetta accoglienza, sia anche poi nelle traiettorie burocratiche o assistenziali che le donne percorrono dopo il loro arrivo sul territorio italiano. Ho pensato che incrociare una visione antropologica sulle prospettive di frontiera con teorie e uno sguardo femminista di genere potesse in qualche modo dar conto dei modi concreti con cui operano, e anche dei modi con cui queste politiche fanno proprio un discorso di razzializzazione, connesso a variabili che riguardano il genere e la sessuazione del corpo – che in termini più teorici si chiamano binomi di sessismo e razzismo. In che modo cioè si potevano leggere dei lati concreti, operativi insieme anche a dei lati molto alti d’impianto di pensiero politico delle politiche di frontiera, partendo proprio dai modi con cui la sessuazione e la razzializzazione del corpo entrano nei calcoli del potere.
MC: Volevamo partire dal tuo libro Migranti e rifugiate. Antropologia, genere e politica, pubblicato nel 2019, per unire alcune tue riflessioni teoriche alle ricerche che hai svolto sul campo, in particolare in Sicilia. Lo definisci un libro di antropologia politica sulle dinamiche di potere e si pone come obiettivo quello di provare a spostare degli assi di sguardo sulle migrazioni. Quindi la prima domanda è sull’immaginario delle “donne migranti e richiedenti asilo”. Scrivi: “È ancora persistente lo sguardo che le ritrae come soggetti posti al di fuori della storia, le cui traiettorie migratorie conferiscono loro emancipazione, libertà e progresso culturale, come se esse e le loro esperienze di vita sociale non avessero una chiave per interpretare tali istanze”. Ci piacerebbe quindi ascoltare e toccare con te il tema della centralità della dimensione politica dei corpi delle donne e il processo di ricostruzione delle loro storie.
BP: Partirei col dire che quando parliamo di immaginario sulle “donne migranti” in verità non saprei come riempire la risposta a tale domanda. Quindi parto da quello che ho pensato quando ho scritto quel testo: provare a scalfire un immaginario ripetuto, consolidato sulle “donne rifugiate” nel mio caso specifico, ma che potremmo allargare alle “donne migranti” più in generale – tenendo anche conto del fatto che queste gerarchie di categorizzazione appunto sono delle gerarchie, e forse non ha molto senso utilizzarle soprattutto nei nostri linguaggi.
Con immaginario in verità avevo in mente delle cose molto specifiche.
Da una parte era una sorta, permettetemi la generalizzazione, di discorso costruito sulle “donne migranti”, che nel mio caso voleva indubbiamente toccare l’immaginario più razzista. Ma, in verità, mi interessava molto di più l’immaginario più scivoloso, quello delle retrovie, quello che spesso adopera delle maschere umanitarie o delle maschere assistenziali e che quindi in qualche modo accetta, tra virgolette, la presenza nel contesto, fa entrare le “donne migranti” nei nostri confini. Questa politica dell’ammissione – mi rifaccio qui al femminismo nero – in qualche modo fa entrare le “donne migranti” sul territorio, in qualche modo assegna loro una forma di riconoscimento. Il punto però è che quel riconoscimento non ha nulla a che fare con un riconoscimento di tipo storico, o un riconoscimento delle “donne migranti” in questa macro-categoria, perdonatemi la generalizzazione. Il punto è che quella forma di riconoscimento è un riconoscimento che limita a vedere in quella “donna migrante”, che è portatrice quasi per eccellenza di determinati tratti della differenza culturale per il colore della pelle, per la religione, per la situazione del corpo o perché è sola, perché è impoverita, la vittima perfetta, quella che è sofferente e che nell’essere sofferente risulta anche un soggetto innocuo dal punto di vista del suo agire politico.
In qualche modo questa figura della vittima diventa l’antitesi del soggetto storico – non perché io lo pensi: il concetto di vittima ha una dimensione etica estremamente importante e richiederebbe a chi accoglie, uso qui il linguaggio nel suo senso più etico, il dovere di dare un riparo dalle ferite storiche, riconoscere coloro che sono stati danneggiati dagli eventi della storia. Intesa in questo senso il concetto di vittima è un concetto molto alto e che implica anche una responsabilità dei contesti riceventi.
Il punto è che questa figura, quindi questo immaginario della vittima, di fatto contrasta completamente con un progetto di riconoscimento che invece rimanda alla dimensione storica, politica, sociale, che vede in quelle donne, indubbiamente ferite da ciò che è accaduto lungo le traiettorie migratorie, ciò che continuerà ad accadere dopo il loro arrivo sul territorio europeo. Questo non significa che l’essere vittima di un evento o l’essere resa vulnerabile da ciò che è accaduto le privi della loro dimensione di storicità: questo era il primo immaginario che intendevo scalfire. L’idea cioè che le forme di riconoscimento proseguono solo laddove quella “donna migrante” manifesta la sua vera sofferenza, il suo essere veramente una donna bisognosa di aiuto, e quindi in questo senso è colei che non agisce. Si vedono molto bene questo immaginario e la sua funzione, per esempio, quando guardiamo i modi con cui le “donne migranti” lo trasgrediscono nei percorsi umanitari di accoglienza. E lo si vede anche nelle politiche di frontiera: le immagini di donne salvate devono essere sempre immagini di donne in qualche modo sofferenti. Ma ci sono dei punti in cui queste donne reali trasgrediscono questo immaginario e immediatamente escono dal piano di un possibile riconoscimento come vittime. Per esempio lo smalto di Josefa, oppure altri momenti in cui quelle donne manifestano un’azione, cioè quei punti in cui trasgrediscono l’immaginario salvifico che merita il salvataggio prima alla zona di frontiera e poi successivamente nei percorsi di accoglienza. E proprio in questi punti di trasgressione e nei punti in cui immediatamente consideriamo non più credibile quella vittima, si vede la forza di questo immaginario vittimizzante. È il primo immaginario che intendevo scalfire – per quello che ho potuto fare o comunque provare lavorando intorno a questo modo di vedere, a questa direzione dello sguardo verso le “donne migranti”.
C’è però un secondo tipo di immaginario che considero di nuovo particolarmente importante, almeno alla stessa stregua del primo, ovvero quell’immaginario di una sorta di paternalismo femminista o rientrante in una sorta di pastorale femminista. È cioè quell’immaginario che nasce in un intento salvifico ed emancipazionista delle “donne migranti” e che in qualche modo ci chiede una critica a una certa agenda politica femminista occidentale, che guardando indietro era quel femminismo chiamato femminismo egemonico, cioè un femminismo bianco, borghese, di una certa classe sociale e anche profondamente occidentale nel suo muoversi verso le altre donne. È un immaginario che vede in quelle donne, o comunque esprime delle forme di aiuto, anche in questo caso, dirette non a riconoscere le donne come soggettività storiche ma come donne da condurre quasi per mano verso un’idea di cultura di genere pensata più autodeterminata, più libera e più emancipatoria rispetto in questa logica a quei modelli culturali di genere di cui le donne migranti sono portatrici.
Ora, se questo immaginario lo si vede nella letteratura, lo si vede soprattutto nel modo con cui sono agite le pratiche di aiuto verso le “donne migranti”, in modo particolare quando hanno subito violenza, anche se in verità, soprattutto nelle rotte migratorie via mare, è difficile trovare qualcuna che non sia stata esposta a minacce di violenza o che abbia direttamente subito violenza. Questo immaginario ha una dimensione molto concreta e si concretizza appunto in quell’insieme di pratiche pedagogiche, educative, che mirano a portare queste “donne migranti”, viste quasi come delle semidonne, verso dei processi di autodeterminazione o delle forme di emancipazione, senza interrogarsi sui modi con cui quelle donne possono identificare, avere delle proprie istanze per pensare l’emancipazione, l’autodeterminazione, il concetto di corpo, l’esperienza di violenza e così via. Tenendo anche conto del fatto che, se per un certo tipo di femminismo questi sono valori portanti, forse dovremmo anche chiederci quali sono altre espressioni di una cultura di genere o di una cultura potenzialmente femminista che altre donne di altre parti del mondo con altre esperienze hanno e in che modo potrebbero arricchire la nostra.
Questo immaginario è da scalfire – immaginario non so se sia il termine giusto – però indubbiamente se vogliamo pensare non soltanto ai processi di riparazione delle ferite delle “donne migranti” ma portarle su un piano di soggettività storica, dobbiamo allora interrogarci anche sulle possibili alleanze di genere. E quelle alleanze di genere non le possiamo fare se presupponiamo che solo noi abbiamo una certa idea di agency trasformativa, di emancipazione, le coordinate più moderne per pensare il corpo, la liberazione femminile e così via.
MC: Quando parli di agency, che è la capacità di azione delle persone, viene centrale la questione della vulnerabilità della “donna in quanto donna”. Vulnerabilità come chiave di accesso, almeno teorica, al sistema di accoglienza e allo spazio dell’accoglienza, cioè le politiche dei campi. E poi, lo citavi forse prima a livello più macro, le considerazioni che fai sui sistemi di controllo nazionale ed europeo rispetto all’ingresso e alla permanenza delle donne richiedenti asilo – “Prima le donne e i bambini”, quell’immaginario salvifico di cui ci dicevi – e i regimi di visibilità/invisibilità legati alle violenze e alla responsabilità politica della sofferenza. Ti chiederemmo qualche considerazione rispetto ai tuoi studi e alle tue ricerche sul campo su questo.
BP: La grammatica della vulnerabilità è una grammatica estremamente apolitica, come se la questione della vulnerabilità fosse per sua definizione l’antitesi dell’azione, l’antitesi della resistenza. Chi è vulnerabile è colui o colei che in qualche modo è impossibilitato all’azione, è incapace di agire. Come se la situazione dell’essere vulnerabile appunto fosse proprio l’antitesi dell’agency umana, fosse la sua contrapposizione in qualche modo. Ora, ci sarebbe molto da dire su questo tema della vulnerabilità e soprattutto sugli usi che ne sono stati fatti, soprattutto rispetto alla ricostruzione della storia delle donne. Adesso faccio dei passi enormi nel saltare di qua e di là nella letteratura e anche nei passaggi storici che quel termine ha avuto. Il tema della vulnerabilità ha spesso definito la condizione del femminile, a grandi linee. La condizione del femminile cioè come colei che in qualche modo è passiva rispetto alla storia, che subisce la storia e che per tale ragione in qualche modo merita più di altri un principio di salvezza. Merita, o comunque la sua occasione di entrare nel regno sociale di azione è quella di entrare in un meccanismo di protezione, come se questa vulnerabilità fosse quasi una condizione ontologica della condizione femminile. Quindi quasi una condizione naturale che in qualche modo sottrae al soggetto femminile una possibilità o una capacità di azione.
Molte cose sono accadute intorno al tema della vulnerabilità e penso soprattutto a una parte della filosofia politica recente che molto ha ripreso dalle riflessioni intorno al tema della vulnerabilità. Riflessioni particolarmente importanti perché sono andate a scalfire prima di tutto questa dicotomia, questa opposizione tra vulnerabilità, azione e resistenza sostenendo che soltanto il corpo vulnerabile, cioè il corpo che è stato passibile di ferite, è il corpo che si espone al potere, alle forme di violazione e di violenza, alle condizioni di vulnerabilità o di marginalità. Proprio perché è il corpo che si espone, che entra direttamente in contatto con le forme di potere, di abuso, di sopraffazione, è il corpo da cui far partire la resistenza e l’azione. Quale più del corpo vulnerabile è il corpo che in qualche modo può ripensare la riorganizzazione umana dopo la sofferenza. E quale corpo di più può parlarci dei meccanismi del potere della sopraffazione se non il corpo colpito.
Iniziando a pensare in questi termini, la vulnerabilità ha, soprattutto in una parte del pensiero filosofico e del caso di studi, come nel mio caso sui rifugiati, spostato proprio l’asse della considerazione. Indubbiamente la questione migratoria, soprattutto quella di cui mi occupo in modo particolare legata alle violazioni gravi sul corpo femminile, sul corpo delle donne subite nei contesti di origine, lungo le traiettorie, nelle zone di transito prima di arrivare e soprattutto anche dei modi con cui i contesti riceventi vanno a ledere ulteriormente questa dimensione della sofferenza e della vulnerabilità, seppure ci sono luoghi in cui i processi di riparazione delle ferite sono particolarmente antichi. Riportare il tema della vulnerabilità dentro questi studi ha significato partire dalla vulnerabilità, perché è innegabile che quei corpi, quei soggetti, sono stati resi vulnerabili. Però qui c’è già un primo punto: non sono le “donne migranti” – invece di donne dovrei dire coloro che sono portatrici appunto di quei differenti tratti di cui parlavamo prima – vulnerabili per sé, come una condizione ontologica del fatto di essere provenienti da determinati contesti o da immaginari, da determinate culture considerate meno moderne delle nostre o che comunque più di altre attanagliano i corpi delle donne. Questo vuol dire che sono solo vulnerabili? Che sono in una condizione di tempo sempre vulnerabile? O vuol dire che c’è stato un passato, un tempo futuro, un modo con cui lavoreranno su quella condizione di vulnerabilità? Questo il primo punto: in questo passaggio vediamo come la vulnerabilità sia un processo costruito, non una condizione in sé del soggetto. Quindi lavoro non tanto sulla vulnerabilità in sé, ma sui processi che hanno reso quel corpo vulnerabile, che è una cosa molto diversa. C’è uno spostamento metodologico, etico molto importante qui: non è responsabilità o merito del soggetto la posizione che occupa, ma piuttosto vado a vedere i processi sociali che producono determinate condizioni. Questo obbliga i contesti riceventi, per esempio, a farsi carico e a rendersi responsabili della sofferenza che producono e anche dei processi con cui cercano di riparare queste ferite.
Un secondo punto è che quindi il tema della vulnerabilità non solo è costruito, ma può anche essere affiancato da forme di azione, pratiche, prassi, modi di agire, di interpretare da parte delle donne – nel mio caso delle donne – che si accostano alla condizione di vulnerabilità. Quindi non è che si nega la condizione di vulnerabilità, ma si impara a vedere quel soggetto in una complessità di posizioni, di esperienze. E peraltro lo si vede anche in un tempo storico, perché ci possono essere anche dei modi con cui le persone imparano ad autoriparare le ferite o anche a voler rimanere in condizioni di vulnerabilità, perché anche questo concetto andrebbe preso nei suoi significati che le persone portano rispetto a quel tema.
Il discorso umanitarista è permeato dalla questione della vulnerabilità. I protocolli umanitari delle agenzie internazionali, delle agenzie ONG locali e tutti i programmi di aiuto umanitaristi rivolti alle migrazioni forzate, in modo particolare alle donne, hanno fatto della vulnerabilità il loro grido di battaglia fin dagli anni ’90, dalla fine degli anni ’80/inizi degli anni ’90 in modo particolare. Il garantire una certa forma di assistenza e di cura alle donne in quanto soggetti vulnerabili e la visione delle donne e bambini come soggetti più vulnerabili di altri. Probabilmente ci sono delle forme espositive a certi tipi di violenza che indubbiamente la situazione del corpo può comportare. Però questa centratura sul carattere della vulnerabilità come unica forma di riconoscimento ha intanto alimentato l’immaginario di cui parlavamo all’inizio. Ma ha anche fatto sì che le pratiche declinate verso le donne vadano verso delle forme di tipo paternalistico. Se io ti considero vulnerabile, quindi in questa logica soggetto non agente o non capace di agire, l’umanitarismo interviene con la sua forma di paternalismo. Paternalismo nel suo vero senso: cioè lo Stato o un attore sociale, istituzionale, giuridico o civile si sostituisce a te nell’azione e considerando l’azione che compie per te migliore di quella che tu potresti compiere per te stessa. L’impostazione dell’intervento umanitario assistenziale sulle donne procede in questa direzione. Quindi con forme appunto di prassi di tipo paternalista, educativo anche se ho di fronte delle donne adulte che magari hanno portato con sé un figlio in salvo. Quindi forme di paternalismo che intervengono per insegnare a quelle donne a essere più moderne, più responsabili, più autonome, più capaci nella loro maternità, più capaci di avere cura del sé e delle persone di cui si devono prendere cura. Quindi è una sostituzione dell’azione di quelle donne. Anche qui, mi interrogo appunto sia sui modi con cui un’azione può essere preservata, ma anche in verità sul vero significato di vulnerabilità. Cioè le donne che subiscono violenza possono per esempio perdere la capacità di cura. Questo è uno degli primi effetti che si ha per esempio dopo violenze gravi, di tipo sessuale o altri, la perdita della capacità di cura, quindi la perdita della cura del sé o dei figli. Però è una condizione che deriva da esperienze vissute, non da una condizione ontologica delle “donne migranti” meno capaci di noi nel portare avanti determinate attività. Quindi c’è anche questa copertura, questo mascherare attraverso il concetto così usato, così definito di vulnerabilità, dell’effettiva vulnerabilità come esperienza vissuta.
MC: Che poi queste prassi parlano molto più del contesto ricevente e parlano molto più di noi
BP: Certo, dei modi con cui reagiamo noi, assolutamente. Questo è anche uno dei portati della migrazione. Quel modo con cui le migrazioni non sono solo un oggetto di studio in sé, ma entrano a far parte della storia sociale e molto ci insegnano rispetto al modo con cui noi costruiamo la storia. Hanno cioè una funzione specchio molto importante nel mostrare quali sono gli ingranaggi con cui attiviamo delle forme di governo della popolazione o pensiamo alle pratiche di cura, di aiuto, di sostegno e così via, cioè svelano degli arcani.
Ma volevo aggiungere, rispetto a questo tema della risposta paternalista che viene data alla vulnerabilità intesa come una condizione ontologica, come una condizione fissa delle “donne migranti”, di un certo spirito che dovremmo avere nel guardare al modo in cui le forme di aiuto e tutto l’intervento umanitario abbiano delle declinazioni sempre sessualizzate, sempre di genere e probabilmente anche razzializzate, cioè si declinano a seconda del soggetto che ho di fronte. Quindi quando prima parlavo di pastoralismo femminista, o di paternalismo di genere, o di un paternalismo che ha una sua sessualizzazione, o della declinazione di genere dello stesso umanitarismo, è molto importante da considerare perché costringe anche le operatrici che hanno un impianto femminista o che hanno una loro prospettiva femminista a farsi delle domande sui modi in cui si interagisce effettivamente rispetto alle pratiche di cura.
Le “donne migranti” quando vivono in condizioni di vulnerabilità o vengono da esperienze di violenza sono considerate come soggetti a cui dare un’etica del sé, a cui instillare dei buoni valori morali non soltanto nella cura di sé stesse e dei figli ma anche nel modo con cui possano diventare dei soggetti più moderni o più capaci di parlare delle loro esperienze. Questo lo si vede molto bene per esempio quando si vanno a raccogliere le testimonianze sulla violenza. Devono avere una grammatica specifica, appropriata per parlare delle loro violenze e laddove si sottraggono come spesso succede – a me succede continuamente – si deve imparare a lavorare sulla reticenza e sui silenzi come caratteristiche del racconto di violenza. Invece spesso questa reticenza, questa sottrazione della parola o non voler testimoniare a tutti i costi le violenze subite con i loro particolari viene vista come un “loro sono meno capaci di restituire ciò che è loro successo perché in qualche modo normalizzano le condizioni di violenza”, quindi c’è una lettura estremamente culturalizzante di questo.
MC: Barbara ti ringraziamo moltissimo. Abbiamo toccato solo dei temi, speriamo sia stato solo un inizio. Grazie davvero, e alla prossima.